Facchetti jr.: in gol
nel nome del padre

Il centravanti del Como in rete domenica scorsa racconta se stesso e l'indimenticabile padre Giacinto

ORSENIGO - Lo ricorda. Molto. Nel viso. Nello sguardo che tende a fissare un punto lontano. Nel mento alto, simbolo di nobiltà. Nella voce. Nell’accento bergamasco, addolcito da una cantilena pacata. Sì, Luca Facchetti ricorda l’indimenticabile Giacinto. Perché non parlarne con lui, a due anni dalla scomparsa del Capitano nerazzurro, e a tre giorni dal suo primo gol con la maglia del Como? Lui accetta. Con educazione e fare gentile. Via. «Un gol alla prima partita? Non me lo aspettavo nemmeno io. Arrivavo da un infortunio, ho saltato la preparazione estiva, ancora oggi, vedete, sono qui con il ghiaccio perchè ogni tanto fa male».
Tra l’altro una sfiga, quell’infortunio...
«Già. Era l’ultima amichevole della stagione del Pergocrema. Contro il Genoa. Finita la gara, rompete le righe, verso le vacanze. Invece a me hanno rotto una caviglia. Brutta frattura. Uno scontro con Lucarelli, mi pare».
Tutto più difficile.
«Già. Sono arrivato qui senza vivere il ritiro, che aiuta ad approfondire la conoscenza tattica e umana con il gruppo. Questo gol aiuterà ad accelerare l’apprendistato».
Abbiamo visto un tuo gol classico?
«Mah, io sono un centravanti che tende a far reparto e a giocare molto per gli altri. Non faccio valanghe di gol. Però, sì, non aspettatevi di vedermi saltare l’uomo in velocità...»
Quando hai capito che avevi la stessa... vocazione di papà?
«Tardi. Fino a 17 anni andavo all’oratorio, niente giovanili o cose del genere. Mi accompagnava lui a palleggiare al campo. Anzi ci accompagnava. Veniva anche mio fratello Gianfelice, che ha giocato un po’ nell’Atalanta e adesso fa l’attore. Ma finiva sempre male...».
Cioè?
«Io volevo palleggiare, lui mi voleva far fare sempre anche cose più noiose, movimenti, corsa, esercizi. Così dopo un po’ me ne tornavo a casa. Il pallone per me era divertimento».
Poi?
"Poi ci ho provato. Dilettanti, C2. Con il suo sostegno».
Mai sentito pressione?
«Mai. Non ce l’ha mai fatta sentire. Non ci ha mai detto "io sono arrivato là, dunque dovete arrivarci anche voi". A me diceva: "Puoi giocare anche in Eccellenza, l’importante è che tu lo faccia sempre con il massimo della professionalità"».
Il babbo calciatore non l’hai mai visto...
«Solo nelle cassette. Sono nato che lui stava smettendo».
Hai vissuto la sua carriera da dirigente.
«Andavamo allo stadio. Ogni tanto andavo in curva. Se non con lui. Siamo tutti interisti, ovvio. Ma a casa non si parlava di calcio. Quando arrivava a casa aveva voglia di staccare».
Non parlava nemmeno della tua carriera?
«Oh, sì. Certo. Ogni tanto mi chiamava a vedere le cassette di giocatori che avevano più o meno il mio fisico, per mostrami i movimenti che dovevo fare. Mi ricordo Cruz, Bierhoff, Andersson e altri».
Il tuo cognome è pesante?
«No, non direi. Faccio un altro ruolo, nessuno fa paragoni. E’ brutto solo quando qualcuno dice cose fuori luogo».
Cosa ti è rimasto del mito Facchetti?
«La cosa più sconvolgente è l’affetto che abbiamo visto al funerale. Incredibile. Non ce l’aspettavamo. Ma per me Giacinto era papà, non un mito».
Domenica hai esultato con un gesto poco facchettiano, la maglia tolta dopo il gol, con ammonizione inclusa...
«Già. Ma venivo da una settimana difficile, l’anniversario della sua morte, un po’ tensione, i postumi della frattura... Ero un po’ teso. Ho reagito così. Ero contento. E poi è bello giocare qui».

Nicola Nenci

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