«La mia vita con Lauda»
Merzario un anno dopo

Con Niki se ne andò, anche, una parte della vita di Arturo Merzario, il pilota che lo salvò dal rogo del Nurburgring nell’agosto del 1976

Un anno fa oggi morì il grande Niki Lauda. E con lui se ne andò, anche, una parte della vita di Arturo Merzario, il pilota che lo salvò dal rogo del Nurburgring nell’agosto del 1976. Le vite di due uomini legate una all’altra. Una storia da romanzo, tra equivoci, frecciate, ripicche, sfociate nella grande pace del 2006 e un rapporto tra i due ritrovato, altri 13 anni vissuti, ora sì, da amici. Abbiamo sentito l’ex campione comasco, un anno dopo, per svelare finalmente la vera storia del controverso rapporto tra i due. Un racconto per certi versi inedito. Cominciato tra le lacrime di un’emozione che ancora non passa al ricordo del suo “nemico-amico”.

Merzario, lei è un personaggio ironico e dissacrante che spesso si diverte a prendere in giro i casi della vita. Ma dopo la morte di Niki l’abbiamo vista commosso.

È difficile parlarne anche oggi, senza sentire un po’ di emozione. Se ne è andata una parte della mia vita. Immaginate voi di essere sempre accomunati a un’altra persona, per un episodio così particolare. Ovvio che senta un vuoto vicino a me.

Nemico-amico è una definizione che lei fa spesso. Giusto?

Giusto. Era un personaggio che sapeva essere spietato, spietatamente lucido. Un po’ è stato così anche con me, ma la storia è stata lunga.

Possiamo parlare di un grosso equivoco?

In parte sì. E la stampa ha fatto la sua parte a soffiare sul fuoco di una vicenda. Ma non possiamo parlare di invenzione eh...

Lei salva la vita a Lauda e si erge un muro di incompatibilità. Si stenta a crederlo.

L’episodio va inquadrato nel suo contesto. Un tassello attaccato all’altro. Come un domino.

Dunque?

«A me Lauda stava un po’ sulle scatole perché nel 1971, cinque anni prima dell’incidente, mi fece perdere un campionato europeo prototipi. Lui correva una gara spot, sulla pista di casa di Salisburgo, io mi giocavo il titolo. Lui corse quella gara con la sfrontatezza del ragazzino guastafeste che poi ti guardava sprezzante con un mezzo sorriso. Tipo Verstappen di oggi. Io invece la vivevo male perché guidavo per Abarth che rischiava di chiudere, senza quel successo».

Poi, la seconda puntata.

«Io guidavo la Ferrari in Formula 1 e avevo lavorato al progetto che poi avrebbe vinto con Lauda e Regazzoni nel 1974, e poi anche nel 75 e 76. Ma me ne andai, vittima del mio caratteraccio. La coppia sarebbe stata Merzario-Regazzoni, invece arrivò Lauda al posto mio. Certo, vedere quella macchina che vinceva, che avrei potuto guidare io, mi faceva girare le scatole. Per questo presi sempre le difese di Regazzoni e dissi anche che la Ferrari aveva preso un illustre sconosciuto come Lauda per dimostrare che era la macchina che vinceva, e non il pilota».

Lo pensava davvero?

«Un po’ sì, perché conoscevo la filosofia del Vecchio Enzo. Ma Lauda era un pilota intelligentissimo, che fece fare uno step in più nell’approccio sulla messa a punto. Detto questo, se avesse guidato nel 1973 non avrebbe combinato nulla. Aveva una buona Ferrari. Fu un grande leader di un pacchetto di nuovo competitivo».

Poi arriva l’incidente.

«Mi buttai nel fuoco e feci due miracoli. Uno, riuscii a slacciargli la cintura. Gli urlavo di rilassarsi, ma lui premeva per uscire da lì e non ci riuscivo. Per fortuna svenne, si rilassò e riuscii a sganciare il meccanismo. Poi, io che pesavo 55 chili, riuscii a tirare fuori da solo un uomo che pesava più di me, prendendolo per il cavallo della tuta e il colletto dietro la nuca. Ancora mi chiedo come ho fatto».

Poteva essere l’occasione per mettere a posto le vecchie ruggini.

«La Ferrari pensò che Lauda fosse finito e cercò Peterson per finire la stagione e forse per farlo correre anche l’anno dopo. Io feci da mediatore e forse Niki, che era furibondo per questa iniziativa della Ferrari, lo seppe. Poi la Rossa prese Reutemann, ma Lauda tornò poco dopo un mese per il Gp d’Italia e lo fece con la rabbia di chi voleva dimostrare di esserci ancora».

Lì arriva l’episodio, chiamiamolo l’equivoco, decisivo.

«Durante le prove del venerdì, piove e Lauda si trova a disagio, fa qualche giro, poi rientra in albergo, con un carico di tensione e nervosismo, forse panico, sicuramente incertezza, molto forti. Lo vidi passare a piedi davanti al mio motorhome e il fatto che non si fermò nemmeno a salutarmi mi fece arrabbiare. Io sbagliai a non tenere conto delle circostanze. Ma ero l’uomo che gli aveva salvato la vita, un saluto credevo che potessi anche meritarmelo».

Trent’anni di freddo prima della pace.

«Eh no. Un giorno, dopo qualche tempo da quella volta a Monza, venne a trovarmi a Salisburgo dove stavo correndo una gara Prototipi. Arrivò, si tolse un orologio e me lo regalò. E io lo gettai dietro un guard rail, recuperato poi da un importante capo tecnico Alfa. Ero offeso».

Dicevamo della pace.

«Nel 2006 Bernie Ecclestone organizzò una rimpatriata al Nurburgring per celebrare i 30 anni dall’incidente. Mi chiamarono ma non sapevo che c’era Niki. Magari se l'avessi saputo non ci sarei nemmeno andato. Ci ritrovammo, mi ringraziò davanti ai suoi figli, cancellammo tutto. E sono seguiti anni di affettuosa amicizia a distanza».

Nel Lauda manager ha ritrovato il pilota?

«Certo. La caratteristica più importante di Niki Lauda era l’intelligenza. E da manager ha mostrato questa sua dote in maniera assoluta. È stato un grandissimo manager. Quello che la Ferrari non ha avuto nel gestire due galli nel pollaio. Credo che abbia imparato da Ron Dennis. L’unico oggi che gli assomiglia è Helmut Marko, che gestisce i piloti della Red Bull. Curiosamente austriaco come lui».

Cosa ricorda del funerale di Lauda?

«Il sentimento di serenità di tutti, dall’ex moglie Marlene, ai figli sino agli ex colleghi. Una bandiera a scacchi dignitosa e composta per uno che ha sempre centrato i suoi traguardi».

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