Metta come Fabregas
Della Fiori: «Vi racconto»

L’ex manager della Pallacanestro Cantù portò il fuoriclasse Usa nella città del mobile: emozioni simili a quelle vissute oggi per l’arrivo del calciatore star

In principio fu Metta World Peace, al secolo Ron Artest. Uno dei campioni planetari targati Nba, capace di vincere l’anello e di giocare al fianco e contro i più grandi. Arrivò, a sorpresa, a Cantù, e per giocarci, nella primavera del 2015, scatenando il circo mediatico di tutto il mondo e facendo sognare non solo i tifosi biancoblù. Un po’ quello che accadrà, fra poche ore, con i fratelli del calcio, quando sotto l’azzurro del Como abbracceranno un fuoriclasse come Cesc Fabregas.

Portò in Brianza, e ci fece divertire tutti per un paio di mesi abbondanti, un giovane general manager, Daniele Della Fiori, alla sua seconda stagione dopo l’upgrade da team manager. Condivise con l’allora presidentessa Anna Cremascoli la lucida follia di fare un colpo che è passato alla storia non solo della società, ma dello sport italiano.

Della Fiori, cosa ricorda di quei momenti?

I giorni e le notte trascorsi a mettere insieme tutti i pezzi.

Dove nasce l’idea?

Noi eravamo sul mercato perché volevamo sostituire Damian Hollis e puntare ancora più fortemente ai playoff. E gli agenti italiani e stranieri lo sapevano.

E siccome gli agenti fanno gli agenti…

Tra i tanti nomi fatto per quel ruolo spunta anche quello di Ron Artest. All’inizio pare una boutade, quasi una favola, proprio per quell’alone d’impossibilità di arrivare a uno così che ci si mette in testa, poi – pensandoci bene – era una storia che si ripeteva, visto che anche l’anno prima qualcosa su Metta era già girato.

E quindi voi vi ci buttate.

L’agente italiano era Federico Paci, cominciamo una trattativa con lui e con l’assistente personale del giocatore, una donna che gli curava gran parte degli interessi, gli spostamenti e l’immagine. Continuavamo però a pensare che fosse una cosa da pazzi, non vera. Quasi da farci una risata e via.

E invece…

Proviamo ad approfondire la cosa. I soldi? Non sono un problema, la risposta. Ma viene davvero? Certo, ha voglia di un’esperienza in Europa. Ci si può parlare? Come no. A vederla così, per la verità pareva una trattativa oltremodo normale, non con un divo.

Accade allora che dall’altra parte del telefono lei un giorno si trovi Metta World Peace…

A dire la verità, ancora oggi ho parlato con uno che diceva di essere lui, poi vai a capire chi ci fosse…

No, dai, non ci dica così.

Mettetevi nei miei panni, mi ritrovavo a colloqui con uno dei miti dello sport, qualche domanda potete pure concedermela…

Ma come andò?

Benissimo. L’impressione era di avere a che fare con un ragazzo stra sveglio, nettamente avanti rispetto agi altri e con una fila di domande, da parte sua, che non mi sarei mai aspettato.

Tipo?

La formula del campionato, la classifica della squadra, la griglia dei playoff, informazioni sulla lega e la voglia di voler vincere a tutti i costi il campionato. Di solito, l’americano medio ti chiede se c’è il McDonald’s, con qualcuno che si spinge fino a interrogativi sull’esistenza della corrente elettrica.

Metta, quindi, anche in quel caso uno spanna sopra tutti.

Mi colpì la sua elasticità mentale. Lo ripeto, inusuale rispetto agli standard.

Mai avuto paura di non chiudere?

A essere sinceri, proprio sul più bello, proprio quando disse: “Vengo”, poi sparì. Insomma, prendeva tempo. Un silenzio di un giorno, suo e della sua assistente, poi la richiesta di finire la vacanza in California con i figli e poi altre piccole situazioni.

Che voi superaste come?

Con la determinazione di portarlo in Italia. Ci aiutò non poco una telefonata tra Metta e Bootsy Thornton, con il quale aveva giocato al college. Fu lui a spingerlo definitivamente da noi, raccontandogli tutto il bene e la storia di Cantù e l’affidabilità totale di un coach come Pinio Sacripanti, che per Bootsy, ma non solo, è stato uno dei migliori di sempre.

Vide, allora, la firma e pensò?

Fu uno spettacolo, io con in mano un contratto autografato da Ron Artest. Fa sempre un bell’effetto.

La gestione di un campione del genere cosa comporta?

Partiamo dalla considerazione che certi giocatori fanno da soli, perché abituati ad avere i riflettori puntati addosso. Quindi certe situazioni come quella di essere bloccati per strada fa un po’ parte della normalità. Lui gestiva tutto in automatico, e questo fatto ci ha aiutato non poco.

Problematiche tecniche?

Ecco, quello potrebbe rivelarsi un po’ un problema. Il rapporto con i compagni, visto che non tutti hanno quell’elasticità mentale di capire come si convive con un fuoriclasse. Potrebbero sorgere delle gelosie e cambiare di molto le gerarchie. Noi eravamo più a rischio, perché lui venne a stagione iniziata.

E come andò?

Andò che la differenza la fece il campione con la C maiuscola. Dipende infatti tutto dalla persona che ti trovi di fronti: Metta, ad esempio, ha l’umiltà cucita sulla pelle. Ha saputo integrarsi e farsi volere bene. Da tutti e da subito.

Proprio mai un problema?

A dir la verità, abbiamo tremato – e non poco – prima ancora che tutto cominciasse.

Cosa accadde?

Arrivato all’aeroporto, si accorse di non avere un biglietto per la business, come lui dice di avere espressamente richiesto per questioni di dimensioni e comodità. Senza farla troppo lunga, ci avvertì che sarebbe tornato a casa, salutandoci lì. Momenti di panico, poi l’upgrade e tutto tornò alla normalità.

Ma non era uno molto umile?

È uno molto umile. In quel caso era veramente questione di abitudine e spazi per un volo così lungo. La riprova, quando arrivò a Cucciago, nell’appartamento di fronte al Pianella. Reduci dall’esperienza in aeroporto, eravamo tutti poco tranquilli. Aprì casa, si portò la mano al mento e ci disse: “Nice. I like it”. Era fatta.

Altri conferme?

Sul campo di allenamento, quando si fermava a fare fondamentali con Giacomo Maspero e Awudu Abass. O quando alla millesima domanda sulla sua esperienza in Nba, rispondeva: “I am an italian league player”. Chiaro, sanno di avere tutti gli occhi addosso, e ci sta pure, ma hanno anche tutti gli anticorpi per conviverci.

Ma lui la prima trasferta a Pistoia venne con la sportina per mancanza di fiducia nel cibo italiano o per abitudine?

Lo fece perché aveva un regime alimentare tutto suo e perché non sapeva che in trasferta di pranzasse tutti insieme. E allora le sue cose, soprattutto bio, se le portava in autonomia. Poi ci ha messo un secondo a scoprire la cucina italiana e dimenticare quella cinese dalla quale arrivava come ultima esperienza. E allora alla ricerca del nostro cibo ci andava proprio, mi ricordo adorava la pasta fresca.

Vitasnella, allora vostro main sponsor, cavalcò l’operazione creando una bottiglietta a edizione limitata con il simbolo del Panda di Metta. S.Bernardo, che è anche partner del Como, potrebbe ora replicare l’iniziativa.

Potrebbe essere un’idea. Per quello che conosco Antonio Biella sono sicuro che ci è già arrivato e avrà già pensato a qualcosa di unico anche per Fabregas.

Facile cucire una campagna pubblicitaria su uno come Metta?

Lui era comunque un soggetto particolare. Diverso da come appariva. Anche se tante delle sue stranezze erano studiate a tavolino, come quella volta che si fece fermare in centro a New York su una vettura da corsa o i tanti cambi di nome, lui era proprio genuino. E ben felice di far passare i suoi messaggi e i suoi brand.

Come fu il distacco?

Ricordo che fu molto contrariato, e deluso dall’essere uscito a gara 5 playoff con Venezia. Era convinto di passare e vincere pure lo scudetto. Ricordo che quando quell’anno poi trionfò Sassari, mi mandò un messaggio con scritto: “Visto? Potevamo farcela anche noi. Altroché Milano o Venezia…”.

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