Traglio: «La mia Dakar verso l’ignoto»

Protagonista Alla prossima Dakar (in Arabia Saudita) ci saranno dieci vetture della sua Tecnosport che parteciperanno alla competizione Classic

Ne avremo parlato, in questi anni, per la sua corsa alla poltrona di sindaco di Como o per la vicenda del salvataggio Alitalia. Ma la prima volta che l’imprenditore comasco Maurizio Traglio era stato protagonista pubblico, era per via della sua passione per i raid motoristici. La sua partecipazione alla Parigi-Dakar. Di più: l’allestimento, alle porte della città, di un polo tecnologico di eccellenza, la Tecnosport, che preparava le vetture per le maratone africane, finendo per vincere anche due volte la Coppa del Mondo. Ora Traglio è tornato al suo vecchio amore. Adesso che il suo impegno per la politica è un po’ sfumato (l’area è quella vicina a Matteo Renzi), ha rimesso in pista la Tecnosport, che negli ultimi tempi si era molto ridimensionata, andando vicino alla chiusura. Alla prossima Dakar (in Arabia Saudita) ci saranno dieci vetture Tecnosport che parteciperanno alla competizione Classic, che mette in gara vetture vintage.

Traglio, torna alla Dakar?

Per la verità dovevo esserci anche l’anno scorso, ma mi bloccò il Covid. Al mio posto corse mio figlio, che ha 37 anni.

Ma com’è questa storia che è tornata la Tecnosport?

Stava quasi morendo, l’abbiamo tenuta in vita. E poi ci siamo ricaduti...

Spieghiamo cos’è la Tecnosport, per chi non mastica di motori?

È stata una grande avventura. Nata negli Anni Novanta, preparando vetture per la Dakar. Anzi, i camion. Erano gli anni della mia collaborazione con Graziano Pelanconi, specialista della preparazione per questi tipi di corse. Io l’avevo fatta in moto. Con noi aveva corso gente come Panatta, Regazzoni, Seppi. Poi è arrivata la Nissan.

In che senso?

Che dopo un successo, correndo con una Nissan, mi arrivò la proposta di aprire una concessionaria di quel marchio e poi, con un forte legame con Nissan Europa e Nissan Spagna, cominciammo ad avere un ruolo importante, sviluppando le vetture e le parti tecnologicamente avanzate di quelle vetture. La partecipazione alla Dakar, per i grandi marchi, così come quella alle gare in pista, è una palestra di collaudo per particolari che poi saranno montati sulle vetture di serie. Sviluppare quelle parti era una grande responsabilità, ma anche un onore.

Anni bellissimi.

Sì, perché vincevamo anche. Due volte la Coppa del Mondo, con vetture praticamente costruite da noi. Sino al 2006 c’è stata questa collaborazione diretta, ma siamo andati avanti per molti anni ad alto livello sempre con le Nissan. Poi le cose sono cambiate, anche il mio impegno con la politica ha sottratto energie, e alla fine la concessionaria è stata ceduta, e l’attività della Tecnosport si è ridotta.

Quasi finita.

Già, quasi. Ricordo che dissi a Max Guarisco, che conobbi da ragazzo, ed è ancora con me cinquantenne, persona capace e onesta, di non spegnere la fiammella. Di inventarsi qualcosa. E lui si era inventato la costruzione di quei mezzi da deserto, tipo Polaris, con cui faceva escursioni in Sardegna o in Corsica. Così, per non chiudere.

Ma poi?

Poi è arrivata la notizia che era stata introdotta la categoria Classic. Si trattava di riportare in vita le vetture con cui correvamo e vincevamo noi. Siamo andati in avanscoperta, prima come assistenza, e abbiamo deciso di tornare. L’anno scorso con tre equipaggi, quest’anno saranno dieci. Abbiamo anche recuperato un Mercedes Chesterfield, uguale a quello con cui correva Regazzoni, e ci correrà un pilota comasco, il dottor Beppe Pozzi, che aveva corso con me tanti anni fa. Ci sarà anche un equipaggio femminile.

La vediamo entusiasta.

Si è ricreato un clima che sembra tornato quello di quegli anni. C’è anche il mio navigatore storico Sandro Pio, il telaista Alfredo Milanese, e il motorista Angelo dell’Oca. Poi Luca Pizzi e il brillante Adam Kechird.

Quante Dakar ha fatto Traglio?

Una ventina. Dieci in gara. E una decina come assistenza. E quest’anno ci torno ancora al seguito, non da concorrente.

Una malattia.

Chi la fa, sente l’attrazione dell’ignoto, difficile da spiegare. Nemmeno stando qui due ore. Sono cose che si provano e basta.

Paura?

Solo al Faraoni in in moto. Lì non so chi abbia guardato giù, ma ho rischiato.

Angoscia?

Non so come definirla.

Aneddoti.

Una volta si ruppe un tubo dell’aria e si bloccarono i freni. E il mio navigatore riuscì a fare un collegamento con pezzi del tubo dell’acqua con cui riuscimmo ad arrivare al bivacco. Andava sostituito ogni mezzora, ma l’inventiva è alla base di questa avventura. Un’altra volta ci perdemmo, di notte, con le indicazioni del road book che non si capivano, perché al buio non vedevi nulla, eri in un tunnel. Eppure grazie a una bussola individuammo il lampeggiante di fine tappa. Che emozione. Tra l’altro quando vedi una luce nel deserto, non capisci se sei a tre chilometri o a 100 chilometri di distanza. Infatti per raggiungere quella luce impiegammo due ore.

Incidenti?

Io più volte, mi sono anche ribaltato. Ne ho visti tanti, anche quello di De Petri, che finì in coma. Ma il ricordo più vivo è quando seguivamo una vettura in un tratto veloce, e chiedevo al mio navigatore chi fosse quel pilota che andava così forte. Non riuscivo stargli dietro. Poi quella vettura si ribaltò, prese fuoco e noi andammo in soccorso. E chi era? Il papà del mio navigatore.

Cosa fa adesso Pelanconi?

Lavora per l’organizzazione della Dakar. Adesso si va in Arabia, ma certo il fascino dell’Africa è unico.

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