Don Roberto martire
E si pensa alla beatificazione

Il vescovo chiede gli oggetti personali del prete: servono per il complesso iter della canonizzazione

I vestiti indossati da don Roberto il giorno del delitto. Il coltello usato da Ridha Mahmoudi per far scempio del sacerdote. Le scarpe dell’assassino, sporche del sangue del prete. La croce da cui don Malgesini non si separava mai. Financo alcuni reperti dell’esame autoptico. È un lungo elenco di richieste quello che il vescovo di Como, monsignor Oscar Cantoni, ha inviato alla corte d’Assise di Como. Il motivo non è stato ufficializzato, ma è chiaro che un simile atto formale non possa che essere il primo passo concreto per aprire - appena possibile - la causa di beatificazione di don Roberto Malgesini.

La volontà della Diocesi lariana di formalizzare la dichiarazione canonica di martire del sacerdote ucciso un anno fa a San Rocco, è contenuta in quell’atto notificato al palazzo di giustizia con il quale il vescovo contava di poter acquisire le “prove” del martirio stesso così da poter introdurre (quando sarà possibile) la causa di beatificazione.

Sulla base del diritto canonico e della Costituzione Apostolica Divinus perfectionis Magister promulgata dal Giovanni Paolo II, che contiene la procedura per le inchieste diocesane in vista della beatificazione e della canonizzazione dei Servi di Dio, è previsto espressamente che «il vescovo dovrà compiere alcuni accertamenti determinanti per la sua decisione» tra le quali «la raccolta delle prove documentarie della causa».

Un lungo processo

L’iter è lungo e particolarmente complesso. Innanzitutto è necessario attendere cinque anni dalla morte, prima di avviare il vero e proprio processo di beatificazione. Ma nel frattempo vi sono tutte una serie di incombenze preliminari necessarie per poi arrivare all’apertura del processo vero e proprio.

La Congregazione delle cause dei santi prevede che «il vescovo diocesano nomini un tribunale composto da un suo delegato, da un promotore di giustizia e da un notaio attuario. Una apposita Commissione storica raccoglie tutti i documenti che riguardano il Servo di Dio e i suoi scritti. Infine due Censori teologi devono valutare i medesimi scritti, se vi sia qualcosa di contrario alla fede o alla morale. Tutte le informazioni vengono raccolte e poi sigillate nel corso di una sessione di chiusura, presieduta dal vescovo». Nel caso di don Roberto l’oggetto della verifica riguarda, ovviamente, i requisiti del martirio cristiano.

L’istanza respinta

Nella sentenza che ha condannato l’assassino di don Malgesini al carcere a vita, la corte d’Assise di Como ha però negato tutte le richieste giunte dalla Diocesi. Su due fronti. Riguardo agli oggetti personali, questi sono stati chiesti espressamente dalla famiglia e quindi i giudici hanno acconsentito che siano i genitori, i due fratelli e la sorella di don Roberto ad averli una volta passata in giudicato la sentenza (con eccezione della croce tau indossata dal sacerdote, che la corte d’Assise ha disposto sia restituita immediatamente alla madre). Riguardo all’arma del delitto o alle scarpe dell’assassino, la corte ha stabilito - come da codice - che siano distrutti una volta terminato l’iter processuale.

Ciò non inficia, in ogni caso, la possibile apertura di un procedimento per la beatificazione di don Malgesini. Da un lato per la possibilità di chiedere direttamente alla famiglia gli oggetti necessari per l’iter, dall’altro perché la norma canonica prevede anche l’acquisizione di testimonianze orali. E di testimoni del valore di don Roberto ne è piena la città, e non solo.

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