Le ambulanze in prima linea
«Ogni giorno ci si spezza il cuore»

I mezzi di soccorso sono i primi ad arrivare a casa dei malati e a portarli via dalle famiglie: «Ci chiedono cosa succederà, possiamo solo star loro vicino»

Al rumore delle sirene sono abituati perché, da anni, salgono e scendono dalle ambulanze cercando di dare soccorso e una speranza a chi è in difficoltà. Di storie ne hanno viste tante.  Ma a quello che stanno vivendo nelle ultime settimane non si ci si potranno mai abituare. Lo ripetono tutti, con gli occhi lucidi.

Sono i primi ad arrivare a casa di chi sta male, vestiti come dei fantasmi, costretti a   separare famiglie, affetti, anni di vita trascorsi fianco a fianco e sono sempre loro a dire che sì, si rivedranno presto. Molte volte mentendo.  Sono i volontari in prima linea sulle ambulanze e, tra loro, c’è chi va ogni giorno, ininterrottamente da tre settimane, in Croce Rossa. Perché c’è bisogno, perché non ci si più tirare indietro.

«Ogni mattina mi sveglio - racconta Paolo Beretta dalla sezione di Lipomo, comitato provinciale di Como - e spero che quello che ho vissuto il giorno prima sia stato un incubo. Vediamo tanta sofferenza, strappiamo i malati alle famiglie ben sapendo che quella potrebbe essere l’ultima volta che si vedono. Non un abbraccio o una carezza. Quando arrivo la prima cosa che dico è  di portare con sé il cellulare e il caricatore: quello sarà l’unico contatto tra loro nei giorni successivi. Mentre sto con loro in ambulanza  mi chiedono cosa succederà poi, se moriranno. Cerco di rassicurarli».

Le chiamate si susseguono . Quattro ambulanze pronte, 24 ore al giorno.  «È incredibile - dice Fulvio Caradonna, un passato in politica e da anni volontario Cri - quanti ragazzi vengano qui volontariamente ogni giorno. Ci sono i trasporti dei malati Covid, ma ci sono tante altre attività quotidiane che devono essere portate avanti: i trasporti dei dializzati , i trasferimenti tra ospedali,  i farmaci o la spesa da portare a casa di chi è in difficoltà. C’è tanta gente che si rimbocca le maniche e  dà una mano». Lui, volontario da 15 anni, racconta: «Se si tratta di  un paziente Covid dobbiamo bardarci con tutti i dispositivi, poi si entra. Ho impresso davanti agli  occhi un appartamento di 65 metri quadrati dove c’erano il papà malato,  la madre e i figli.  Nessuno con la mascherina. Tu devi prendere il papà e portarglielo via e loro hanno paura di non rivederlo più. Ogni volta, ogni giorno vediamo situazioni come questa. Ci si spezza il cuore».

Fino a prima del coronavirus le famiglie si salutavano, in qualche caso  un parente saliva in ambulanza. Avevano, comunque, la certezza di rivedersi poco dopo in ospedale. Adesso non è così. Nessun abbraccio, nessuna certezza.  Eppure, come raccontano i volontari, c’è anche chi, incurante di quello che accade, non rinuncia a estrarre il telefonino per filmare i soccorsi, addirittura il vicino di casa mentre viene caricato in ambulanza. «Pensano che non li vendiamo - dicono - ma non è  così.  Persone  senza umanità.  Non siamo al cinema.   Non capiscono che oggi capita al tuo vicino, domani  a te». Negli ultimi giorni, dice Beretta, stanno facendo diversi servizi per le case di riposo: «Lì il problema è stato sottovalutato: parliamo di strutture accreditate  dove si paga anche la retta,  ma non hanno  acquistato le mascherine o  isolato chi presenta sintomi. Un disastro».

Da Como c’è anche chi, ogni giorno da 21 giorni, va a Bergamo. «Abbiamo quattro mezzi distaccati - racconta Michele Di Donfrancesco, soccorritore da 27 anni  - e la notte scorsa, per la prima volta, su sei trasporti solo due erano Covid. «Lì, tra Treviglio, Bergamo e Zingonia, i casi sono tantissimi. Ti ritrovi a dover andare in piccole case isolate dove abitano marito e moglie, anziani. E ne devi portare via uno dei due. Uno strazio. Noi non sappiamo neanche in che ospedale andremo.  Ricordo bene un signore di 92 anni: è salito da solo in ambulanza, stava abbastanza bene. Negli 80 chilometri che abbiamo fatto per arrivare all’ospedale abbiamo chiacchierato tanto. Il giorno dopo sono tornato nello stesso ospedale e ho chiesto di lui, volevo salutarlo. Mi hanno detto che era morto. Ho ripetuto che non era possibile, che stava bene, che c’era  di certo un errore. E invece no, nessun errore. E non puoi fare altro che piangere. E ripartire». G. Ron.

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