«Ogni giorno a lottare con il virus
Abbiamo paura che non basti mai»

Il racconto di Stefano, infermiere del pronto soccorso del Valduce

l pronto soccorso del Valduce arriva l’ennesima ambulanza della giornata. Soccorritori avvolti nelle tute bianche antivirus scendono, recuperano la barella, e accompagnano all’interno una pensionata di 70 anni con i sintomi classici del Covid-19. La signora è spaventata, come tutti i pazienti che entrano in ospedale scortati da figure protette da corazze in tyvek, ma non tanto per se stessa, quanto per il marito. Anche lui prelevato da un’ambulanza, ma portato in un altro ospedale. Chissà quale. Chissà dove.

Emergenza continua

«Dal punto di vista emotivo, il distacco dei pazienti dai loro famigliari è il più difficile da gestire – racconta Stefano Guglielmini, infermiere di sala operatoria del Valduce richiamato in pronto soccorso, dove ha lavorato per anni, dopo lo scoppio dell’emergenza coronavirus – Questa signora era spaesata, come tutti. Ma la sua preoccupazione era di non avere notizie del marito. Ci siamo messi subito al telefono per capire dove fosse stato trasportato, e abbiamo scoperto che si trovava al Sant’Anna. Gentilmente i colleghi ci hanno riferito le sue condizioni e noi abbiamo tranquillizzato la donna. Ma il risvolto umano di questa malattia... beh, lascia il segno».

Nelle emergenze, e quella tragica della pandemia da coronavirus non fa eccezioni, il pronto soccorso di un ospedale è l’avamposto da dove passano tutti. Il luogo dove per primo si è capito che lo tsunami Covid stava travolgendo anche la nostra città.

«Ho lavorato otto anni al pronto soccorso in Valduce – dice Stefano Guglielmini – prima di passare in sala operatoria. Due settimane fa mi hanno richiamato qui per affiancare il lavoro del caposala». Erano i giorni in cui si è capito che il Sant’Anna da solo non ce l’avrebbe fatta a gestire l’ondata di pazienti. Ogni presidio sanitario diventava una risorsa. A cominciare dal Valduce: «Ho ritrovato i colleghi con cui ho lavorato per anni – spiega l’infermiere – Ma in una situazione completamente nuova. Per prima cosa abbiamo dovuto ripensare agli spazi interni per creare dei percorsi “puliti” e dividere i possibili infetti dagli altri pazienti. Abbiamo dovuto letteralmente spaccare in due il pronto soccorso, con due ingressi differenti per sospetti Covid e per gli altri pazienti. Questi ultimi, a onor del vero, sono sensibilmente diminuiti», come accaduto anche al Sant’Anna, segno che evidentemente in molti hanno sempre abusato di quello che sarebbe un reparto d’emergenza.

«Dal punto di vista del personale l’équipe si è allargata moltissimo – prosegue – C’è stata una risposta meravigliosa da parte di tutti i colleghi dei reparti che sono stati chiusi. Da quei reparti i medici e gli infermieri sono venuti in pronto soccorso. Persone che, magari, si conoscevano solo di vista si sono ritrovate a lavorare gli uni accanto agli altri e, devo dire, che c’è tantissima collaborazione. E questo è molto bello».

Perché succede sempre così: nelle emergenze viene fuori spesso il lato migliore delle persone, oltre che dei professionisti. Ma i risvolti emotivi di questo tsunami, travolgono anche l’ambiente più affiatato. «Dal punto di vista psicologico combattiamo tutti i giorni con il timore che non basti mai. Hai paura che non bastino gli spazi che hai recuperato, hai paura che non bastino le prese dell’ossigeno, hai paura che non bastiamo noi».

L’impatto con il ritorno in pronto soccorso, per Stefano, è stato una fila di barelle in corridoio con pazienti attaccati alle bombole d’ossigeno: «Ci siamo dovuti riorganizzare. Ora abbiamo 18 postazioni con ossigeno, ma a volte non bastano e vanno raddoppiate perché arrivano tantissime persone con i sintomi del Covid. E quando arriva una nuova ambulanza hai paura di non aver abbastanza postazioni per garantirgli le cure». Ma fino ad oggi tutti hanno ricevuto cure e attenzioni. E non soltanto dal punto di vista sanitario.

Il dramma della solitudine

«I pazienti vengono separati dalla famiglia all’improvviso. Nessuno può seguirli e si ritrovano soli in ospedale» con la paura di morire. «Noi ci siamo attrezzati con dei tablet, su cui abbiamo caricato skype, per poter consentire ai nostri pazienti di fare una videochiamata con i propri parenti, per sentirsi meno soli e meno spaesati». Ma quelli che peggiorano e non ce la fanno sono moltissimi: «L’aspetto più triste di questa malattia è come poi, anche dopo, non si possa fare una veglia funebre per loro, non si possa accompagnari in chiesa per il funerale o al cimitero. C’è la possibilità – sospira l’infermiere del pronto soccorso - che una persona venga portata via da casa e che i suoi cari non la vedano mai più. Ecco, questa perdita di contatti è uno degli aspetti più spaventosi e crudeli» di questo maledetto virus.

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