Quindicesima estate senza il lungolago
La speranza è che sia l’ultima

Cavi pendenti dalle chiome dei tigli, tubi, penumatici, cemento sotto gli occhi dei turisti - Così le paratie festeggiano il più brutto degli anniversari

Como

Quattordici anni sono trascorsi dalla posa della prima pietra del cantiere dei cantieri, quello per la realizzazione delle paratie antiesondazione e del nuovo lungolago.

L’estate alle porte - l’estate del gran ritorno al lago e del gran ritorno alla vita, quella per cui già ci si sbilancia in mirabolanti previsioni sui flussi turistici che ci renderanno tutti ricchi –, la nuova estate alle porte sarà la quindicesima senza lago. O meglio: la quindicesima di coabitazione forzata con un cantiere che al netto dei suoi lenti progressi rimane inevitabilmente sempre lo stesso: un posto brutto, disordinato, perfino maleodorante a dirla tutta, con le sue pozze d’acqua verde e stagnante che fanno felici giusto le tartarughe d’acqua acquistate alla fiera di Pasqua (e poi liberate).

Uno spettacolo surreale

Si dirà: da quando gli anniversari sono una notizia? Già, da quando. Probabilmente non lo sono mai stati, ma il ritorno dei turisti (anche ieri se ne sono visti tantissimi, di quelli veri, non i soliti monzesi fuori porta, ma turisti francesi, svizzeri, tedeschi, inglesi), il ritorno dei turisti è il faro che si riaccende su quello che resta di 15 stagioni di disastri, nella speranza che davvero, come garantisce il solito cartello affisso fuori dal cantiere, il termine lavori sia previsto per il 2023, e che questa sia davvero l’ultima estate di grate e cemento.

Lo spettacolo del resto è surreale, e lo anche e soprattutto perché il livello di assuefazione è tale da impedire di mettere a fuoco brutture che sono ormai connaturate al panorama, presenze scontate non solo nella prospettiva di uno studente di seconda liceo che il lago diverso da così non l’ha mai visto – e per il quale tutto questo è tristemente normale, tartarughe comprese – ma anche per chi da adulto qualche ricordo diverso di questi spazi e delle sue ringhiere a forma di timone dovrebbe pur conservarlo. E invece no.

Sono normali i cavi appesi alle chiome dei tigli che ombreggiano il “déhor” del chiosco bar all’inizio di lungo Lario Trieste, normali le reti attraverso le quali i turisti tentano di far scorrere i teleobiettivi delle loro fotocamere per immortalare Libeskind e le montagne, normali i sacchi di cemento, le montagne di pneumatici (sì, pneumatici, e chissà cosa ci stanno a fare), e i tubi, e i silos, e le ruspe, e il ferro abbandonato tra le rose di quella pseudo aiuola invasa di rose ed erbacce che sta accanto alla biglietteria della Navigazione.

La passeggiata “Zambrotta”

Ieri mattina verso mezzogiorno da qui salpava la motonave Orione, carica di turisti come nemmeno a Ferragosto.

Anche qui scorci imbarazzanti, pure a volersi convincere che con gli occhi di chi viene da fuori tutto appare più esotico e più bello, e che basta il blu del lago a cancellare il resto. Per un indigeno il contrasto è imbarazzante: l’Orione da una parte, la passeggiata Zambrotta dall’altra. Ecco: questi lembi di prato spelacchiati dicono tutto della distanza che esiste, quantomeno a queste latitudini, tra l’efficienza del privato e l’inefficienza del pubblico.

Bisognerebbe ricordarsene quando questo posto - ciclicamente - ridiventa la valle incantata dei sopralluoghi, e da Milano arrivano tutti in fila con il caschetto in testa a effettuare le loro verifiche beandosi dello “stato di avanzamento dei lavori” a favore di telecamere. Quindici estati, fine lavori 2023. Diciamocelo: senza vergogna.

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