Cultura e Spettacoli
Lunedì 18 Ottobre 2010
Non dite "figli di un Dio Minore"
L'etica si interroga sui disabili
E' in uscita un libro dell'Università Cattolica di Milano sulla cura e sull'handicap. Tra i saggi anche quello di una filosofa comasca, che anticipa le novità dello studio
Non figlio di un Dio minore, ma figli di Dio e basta. E allora magari imperfetti, malati, bisognosi di cure, dipendenti e per questo incapaci di essere macchine perfette votate all'efficienza e alla produttività. "Paradoxa. Etica della condizione umana" (a cura di Adriano Pessina, Vita e Pensiero, 296 pag., 18 euro) è il titolo di un libro che è uno sforzo di riflessione colta sulla disabilità e la condizione troppo umana della malattia e che ha raccolto il lavoro di ricerca di un gruppo di filosofi, medici, studiosi, insegnanti guidati dal professor Adriano Pessina, bioeticista e filosofo morale dell'Università Cattolica di Milano.
Un libro "politicamente scorretto" perché fa i conti con le parole sbagliate come "handicappato", ma anche con quelle più urbane come "diversamente abile", ma che nella loro ipocrisia linguistica perdono comunque di vista la persona con disabilità e stigmatizzano come marginale un modo di essere profondamente umano. Il titolo, non immediatamente esplicito nelle intenzioni, ha bisogno forse di essere spiegato.
"Paradoxa" perché, come scrive il filosofo Pessina nella sua introduzione, è il tentativo di comprendere «quale sia il senso della perfezione umana, se essa sia soltanto un sogno, un progetto, un desiderio, o se invece possa essere una pratica compatibile con la finitezza umana e con quelle esperienze quotidiane che hanno a che fare con la sofferenza, il dolore, la menomazione, la perdita di qualità che ogni giorno esaltiamo come unico senso della perfezione stessa». Un andare contro l'opinione comune, dunque, un paradosso appunto, la scelta di parlare non di disabili, ma di persone con disabilità, nel tentativo di scoprire le più sottili forme di discriminazione della società occidentale, che per quanto liberale e garantista fa ancora della salute un potente discrimine. La disabilità, ridotta a handicap è, del resto, ancora oggi nel senso comune ciò che è in-guaribile e, in quanto tale, ciò che non mi ri-guarda, perché la malattia è inguardabile. Nel Medioevo si pensava che un candido uccello, il caradrio, avesse il potere di guarire, cosicché veniva portato di fronte al malato per assorbirne le infermità, ma quando l'uccello distoglieva lo sguardo dalla persona malata era il segno infausto di malattia inguaribile. Eppure inguaribile non significa incurabile. Occorre pertanto superare il pregiudizio che al gesto di cura debba corrispondere un risultato, un miglioramento, quando non addirittura il ripristino dell'integrità delle capacità della persona. Il punto è, dunque, come afferma nel suo saggio la neurologa del Besta, dottoressa Matilde Leonardi, che occorrono nuovi paradigmi nella definizione di salute e disabilità, quest'ultima da intendersi anzitutto come la relazione tra lo stato di salute della persona e l'ambiente fisico e sociale, dal momento che proprio i fattori contestuali possono essere fortemente invalidanti. Del resto la perdita delle capacità e la malattia sono sempre in agguato per ciascuno di noi. A questo proposito Elena Colombetti, docente di filosofia morale, insiste che oggi l'obiettivo politico non è «quello di stabilire cosa le persone debbono fare, ma metterle in grado di fare». Mentre Alessio Musio, docente di filosofia teoretica, avverte che la nozione di persona umana non deve essere costruita "a partire" dalla disabilità, ma "messa alla prova" dalla disabilità. Mentre le studiose Silvia Bressi e Francesca Viganò parlano rispettivamente nei loro saggi di diritti al riconoscimento e di giustizia retributiva.
Bisogna, dunque, ripensare la disabilità, cercare nuove parole per raccontarla, il che però implica anche un ripensamento del concetto stesso di salute. È necessario superare il pregiudizio culturale, quando non addirittura la superstizione, per cui chi è malato è toccato dalla malasorte irreparabilmente. Hannah Arendt, in un ritratto filosofico dell'amico Walter Benjamin, gravemente malato sin dalla nascita, parla dell'omino gobbo delle fiabe tedesche, un piccolo nano maligno che portava disgrazia nelle vite degli uomini. E così accade oggi, nella società dei caradri, di coloro che non vogliono guardare l'in-guaribile, una società che non pensa alla malattia come condizione umana, ma come evento della malasorte, una jattura inferta da piccoli nani maligni che, poiché inguaribile, non merita la gratuità del tempo lungo e paziente della cura e di una condivisione sociale delle responsabilità di fronte alla malattia.
Bisogna, dunque, riscoprire un'etica della cura e fare dell'aver cura non un semplice intercettare un bisogno o a una mera prestazione di aiuto, ma un'intentio, un fare progettante che pensa alla disabilità e alla malattia come condizione umana di soggetti politici che necessitano di azioni implementate, di riconoscimento, di equità, di risposte e non già di premurosa vigilanza. Un ad-sistere che, però, non degeneri nell'assistenzial-ismo, in una sorta di rassegnato «Maldestro ti saluta» delle fiabe tedesche di chi è vittima per sempre della iattura.
Alessandra Papa
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