Lo scrittore: "Ho nostalgia
dei reportage di un tempo"

Emilio Magni, narratore con alle spalle una carriera da giornalista di quotidiano, interviene nel dibattito sul nuovo modo di fare inchieste giornalistiche: il caso di "Metastasi" (Nuzzi-Antonelli) apre una riflessione sulla professione del reporter.

Ho letto con interesse il pezzo, uscito nelle pagine culturali, sul "nuovo stile di fare reportage". Penso però che questo nuovo modo di raccontare la cronaca nei libri intrapreso da questi giornalisti di «Libero», sia un modo sbagliato di fare reportage, almeno nel significato di questo termine in campo giornalistico. Questo è il racconto di un  "qualche cosa"  che sta in piedi solo sul dubbio e magari anche sul sospetto. Il "reportage" è invece il resoconto di una cosa vera, reale e soprattutto documentata: questo è il "reportage". Ed è sempre stato così. In «Metastasi» non c'è niente di concretamente reale e di documentato: è soltanto l'orgia del "condizionale" e dell'imprecisione. Alcuni fatti qui raccontati sono stati da me vissuti come cronista. E quindi posso dire che in molti punti (almeno quelli di cui sono a conoscenza) vi sono errori di tutti i tipi: date sbagliate, persone con nomi sbagliati,  circostanze, luoghi. Almeno sui luoghi occorrerebbe essere precisi. Non si può dire che la povera Cristina Mazzotti fu sepolta in una cava a poca distanza da Eupilio. È come dire che Yara è scomparsa in un paese della Liguria. Purtroppo questo modo di fare la cronaca che scredita irrimediabilmente la categoria,  non prende solo quelli che raccontano per "sentito dire" nei libri, ma anche negli articoli. Ogni giorno, o quasi,  mi tocca leggerne di tutti i colori. Mi trattengo dal bestemmiare perché tiro qua la solita frase: «tutti sbagliano e qualche volta ho sbagliato pure io». Ma gli errori dei vecchi cronisti erano  dovuti siolo a immancabili "incidenti di percorso". Quasi mai era dovuti a quella scarsa propensione a far fatica: come mi pare avvenga oggi. È assurdo leggere un articolo di un incidente stradale accaduto due notti prima e non riuscire a non poter conoscere il nome dei "sette feriti" che annuncia il titolo. È brutto tirare qua la solita frase «ai nostri tempi non era così». Però, guai se il direttore De Simoni si accorgeva che non tornavi in redazione, o telefonavi il pezzo senza un nome o il "faccino del morto".  Per concludere  un piccolo aneddoto. C'era un vecchio capocronista che dei mezzi coinvolti negli incidenti voleva anche il numero di targa. Poi alla fine scoprimmo che adoperava i numeri per giocare al lotto. E qualche volta vinceva.

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