Cultura e Spettacoli
Giovedì 12 Febbraio 2009
Per le spose del '300
Gli abiti lussuosi erano fuorilegge
Gli statuti comunali regolavano feste, vesti e regali
La corsa allo sfarzo per tenere alto il nome del casato
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di Magda Noseda*
Non è solo una faccenda di romanticismo, il matrimonio, nella Como del ’300. Anzi, l’amor cortese a quei tempi ha poco a che vedere con le nozze, assai più simili a un vero e proprio contratto privato fra le famiglie degli sposi - il matrimonio religioso prende piede solo dopo il Concilio di Trento nella seconda metà del ’500 - che al coronamento di un sogno d’amore. Un contratto, quindi, lasciato all’iniziativa delle parti per gli aspetti economici e per quanto riguarda il rito - spesso era sufficiente che gli sposi si appartassero, altre volte si teneva una cerimonia ufficiale, ma il momento più significativo era sempre la transductio ad domum l’accompagnamento della sposa alla casa coniugale - ma severamente regolato nel suo profilo di ordine pubblico, come attestano le Leggi Suntuarie del 1346 annotate sul codice mezzano degli Statuti della città di Como, l’importante codice conservato all’Archivio di Stato.
Dalle norme emerge fra l’altro che «al momento delle nozze non possa intervenire nella casa dello sposo o della sposa o nel luogo del convivio un numero maggiore di 36 persone al giorno e le nozze non possono durare più di due giorni». Lo statuto non agisce né contro i servitori, né contro i bambini, né contro gli abitanti della casa, per i quali è lecito essere presenti alle nozze, al di là del numero. «Nessuna persona che si associa agli invitati durante il corteo che va al convivio o che ritorna dalla casa può procurare o emettere alcun suono né avere con sè alcuno strumento per suonare. La metà della condanna si riserva anche nei revertali - i rientri di persone lontane che ritornano in città - dove non possono essere presenti nel convivio più di 20 persone eccetto i servitori e i bambini e gli abitanti della casa dei revertali».
È questa più che mai una norma prudenziale di ordine pubblico, piuttosto severa. Non solo si limita il numero delle persone: si è visto che per l’offerta (cerimonia non ben identificata, ma certamente volta ad ottenere buoni auspici) la sposa non può essere accompagnata da un numero superiore a 16 donne, che per la benedizione delle nozze gli "uomini", escluse donne e bambini e servitori, non devono essere più di 24 ed al convivio non vi devono essere più di 36 invitati al giorno. Bisogna tenere presente il momento storico e i gravi conflitti che travagliarono fino ai primi decenni del Quattrocento le famiglie comasche (la pace di San Bernardino e di Silvestro da Siena è conclusa nel 1439). Ogni assembramento poteva costituire fonte di incidenti, ferimenti e omicidi. La norma che riguarda il suono, il divieto di emetterlo o di portare strumenti per procurare musica coinvolge, forse, solo coloro che si associano agli invitati al convivio e cioè soltanto i partecipanti al corteo, pertanto questa ordinanza trova giustificazione nel vietare eccessivo rumore e schiamazzi, e che il suono troppo elevato potesse recare noia o di fatto occultare disordini di altro tipo e agguati.
Limitazioni sono previste nello specifico anche per la sposa. Si è già detto che non può recarsi a fare l’offerta prevista per le nozze in compagnia di un numero superiore a 16 donne, ma alla sua benedizione, sia che si tratti di una donna o di una donnicella (termine da cui deriva damigella; la differenza è dettata dall’età: domina se aveva compiuto i 25 anni, domnicella se di età inferiore) non possono intervenire più di 12 uomini per parte - in tutto 24 - senza calcolare i servitori che portavano le suppellettili per servire il cibo e le coppe per bere. La pena è di un fiorino d’oro per ogni invitato eccedente. La benedizione sembra essere l’unico momento del complesso delle cerimonie in cui ha un certo qual ruolo anche il sacerdote.
Le Leggi Suntuarie regolano anche i doni delle spose al marito: nessuna sposa o altra persona per incarico di lei può portare né mandare al marito o sposo alcuna infula (una ricca veste di seta), o calzature, una tovaglia o drappo, borse, oltre alla borsa da regalare allo sposo. Era infatti consuetudine in molte città d’Italia, come anche a Como, che la sposa donasse allo sposo una borsa di un certo valore. Il dono si era andato via via arricchendo di altri oggetti, come la veste di seta, le scarpe, le tovaglie o drappi ed altre borse, con un impiego notevole di capitale da parte delle famiglie della nubenda, tanto che il legislatore ha ritenuto opportuno restringere la donazione. Nessun accenno, probabilmente perché non rientrava nella censura, è fatto alla consuetudine che gli sposi comaschi bevessero durante la cerimonia del vino dal medesimo calice in un solo fiato, simbolo della futura comunione di vita.
Di particolare interesse e coerente alla volontà di limitare gli enormi dispendi di patrimoni delle famiglie in occasione delle nozze, che arrivavano ad ipotecare o vendere terreni e case, depauperandosi, per sostenere un lusso orientato a tener alto il prestigio del casato (imitato via via proporzionatamente anche da tutti i ceti della popolazione), è la norma che limita il numero e la preziosità delle vesti che la sposa portava al marito o che la stessa riceveva in dono (si apprende dagli atti notarili che talvolta le vesti erano tanto preziose, intessute d’argento, ricamate d’oro e perle, che venivano date in pegno in cambio di soldi liquidi ed era preoccupazione del testatore che lasciava al mondo donne da marito stabilire con estrema precisione quale tipo di abiti e quanti dovessero essere preparati per figlie e nipoti al tempo del matrimonio).
Ebbene lo statuto limita nel 1346 il numero delle vesti "nuove" (non di quelle vecchie od usate) della liminota, la sposa, a sole tre e ne stabilisce anche il valore massimo: una veste fabbricata con stoffa del costo massimo di 4 lire terziole al braccio - metri 0,59 -, la seconda con stoffa del valore di 3 lire terziole al braccio, l’ultima di soldi 40 terzioli al braccio.
(*Archivio di Stato di Como)
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