Cultura e Spettacoli
Lunedì 05 Gennaio 2009
Il fotografo che insegna
a inquadrare la speranza
Il fotoreporter comasco Gin Angri è riuscito a creare un laboratorio ad Addis Abeba, frequentato da vittime di abusi: quell'esperienza straordinaria oggi è un libro
Scattare fotografie per guarire da un trauma tanto terribile quanto devastante come l’abuso sessuale sui minori. Si tratta di un’iniziativa promossa dall’associazione comasca «IlSole» che si inserisce all’interno dell’articolato progetto "Fiori che rinascono", un’oasi di accoglienza rivolta a bambine etiopi lacerate nel corpo e nell’anima dalla violenza sessuale.
Diversi sono i laboratori di Teatro, Musica, Arte e Fotografia che hanno preso vita ad Addis Abeba per aiutare le ragazze a riavvicinarsi a se stesse, nel tentativo di instaurare un nuovo dialogo con il proprio corpo e con il proprio io. Tra le iniziative spicca quella del fotografo comasco Gin Angri che nella città africana è riuscito a creare un vero e proprio laboratorio di fotografia, dando la possibilità alle ragazze di guardare, attraverso l’obiettivo, il mondo con occhi nuovi. Le splendide immagini a colori scattate dalle bambine etiopi e da Gin Angri vengono riportate in "RiScatto" (Infinito Edizioni, € 13), un libro scritto a più mani che vuole essere lo spunto per altre iniziative volte a creare una rete di strutture dove i bambini vittime di violenza sessuale possano trovare accoglienza. Il fotografo comasco ci racconta la sua esperienza, che nelle scorse settimane ha conquistato anche i mass media nazionali: il settimanale "Grazia" gli ha dedicato un intero reportage.
Gin Angri, com’è nata l’idea di un laboratorio di fotografia per le ragazze etiopi vittime di abusi?
È nata proprio all’interno di questo progetto de «IlSole» che era già iniziato un anno prima per quanto riguardava il laboratorio teatrale, musicale e artistico. L’anno prima, cioè nel 2006, ero stato ad Addis Abeba a documentare questi progetti dell’attività de «IlSole» che lì ha questo centro attivo tutto l’anno che raccoglie più di duecento bambine vittime di abusi sessuali. Durante il periodo estivo, che coincide anche con le ferie scolastiche, si fanno anche questi laboratori: una full immersion dove le ragazze sono disponibili da mattina a sera per tutta la settimana. Questo corso era rivolto a una quindicina di ragazze dai dodici ai sedici anni.
L’obiettivo della macchina fotografica può, secondo lei, essere visto come una sorta di scudo contro le violenze esterne dietro al quale rifugiarsi?
Sì, addirittura una bambina ha affermato di sentirsi protetta dall’esterno grazie alla macchina fotografica e di riuscire ad aggirarsi per i territori che fino a poco prima erano nemici, dove aveva sofferto la violenza.
Ritiene che le la fotografia sia stata un mezzo utile per aiutare le ragazze a esprimere se stesse?
È stato un mezzo molto positivo da quel punto di vista. È stata una cosa quasi istintiva e molto spontanea, subito accolta con molto entusiasmo e spirito di iniziativa. Le ragazze mostravano molta cura anche nei confronti delle macchine fotografiche e della tecnologia digitale che a loro era completamente estranea, ovviamente. Avevamo portato cinque macchine fotografiche, un computer portatile e una piccola stampante, tutto materiale che è rimasto giù. Ogni gruppo, costituito da due ragazze, alla fine del lavoro, verso sera, si creava una propria cartella nel computer in cui scaricare le foto del giorno. Mostravano molto riguardo, avevano capito che non era un gioco ma una cosa importante con cui potersi esprimere. Nell’ultima settimana sono andate loro stesse a fotografare le loro case e i loro quartieri dove molto spesso erano state abusate, perciò in zone abbastanza delicate, e grazie alla macchina fotografica andavano con una grande grinta: avevano recuperato un’autostima. Faccio il fotografo di professione, però mi piace anche usare la fotografia a scopi didattici e anche per uscire da determinate situazioni di deficit.
Il libro «Riscatto» raccoglie le testimonianze di questo progetto. C’è n’è qualcuna in particolare che ricorda e desidera raccontare?
Sì, ci sono diverse testimonianze che vengono riportate nel libro "RiScatto", come ad esempio quella di Bezawit Solomon, che afferma: «Il laboratorio di fotografia ha rivelato la parte migliore di me. Ho scoperto che mi piace l’arte e ho trovato nuovi interessi. Come se avessi scoperto una Beza (il suo nome) completamente nuova». Un’altra ragazza, di nome Birukwait Roba, ha detto: «L’abuso sessuale ti segna per sempre, questo è vero. Ma è possibile guarire e guardare a te stessa in modo positivo. Nelle foto che le mie amiche mi hanno scattato nel laboratorio, io sono bella e mi vedo bella». Oppure, ancora, la testimonianza di Meseret Bogale: «Ho cercato di capire perché gli operatori del laboratorio facessero questo per noi. Non erano pagati, svolgevano un lavoro faticoso e pieno di difficoltà. È stato il loro esempio a motivarmi a trovare uno scopo significativo alla mia vita».
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