La soglia magica della vita che solo la poesia può varcare

Nel nuovo libro Mario Santagostini attraversa la storia tra realtà e immaginazione seguendo la lezione di Borges. Sabato 1° ottobre lo presenta con una passeggiata a Brunate

Quanti aspiranti poeti sono andati a bottega da Mario Santagostini? Alcuni formandosi sui suoi libri e attraverso i suoi interventi critici, altri in senso letterale, frequentando la “Bottega di poesia” che ha tenuto per anni al festival Europa in Versi. Varcata la soglia dei settanta, ha pubblicato uno dei suoi libri più intensi, e anche dei migliori delle ultime annate, tant’è che si è recentemente aggiudicato il Premio Carducci a Pietrasanta: “Il libro della lettera arrivata, e mai partita” (Garzanti, 2022, pp. 160, 20). Sabato 1° ottobre alle 15 lo presenterà con un’originale passeggiata letteraria nel Parco Marenghi di Brunate, con vista lago e Alpi, nonché sullo skyline della sua Milano. Info e iscrizioni gratuite a questo link: http://santagostini.eventbrite.it.

I personaggi nel suo libro si muovono tra realtà e sogno e nel titolo di due sezioni cita il “realismo magico”. A pronunciare quest’ossimoro, sul lago di Como, si pensa al suo ideatore Massimo Bontempelli, ma nel mondo lo si associa ai più famosi Borges e Marquez. Per lei cos’è?

Borges e Marquez sono tra gli autori della mia vita. E tutte quelle pagine dove a un certo momento non si capisce più dove finisce il pensiero e comincia l’immaginazione, o dove termina una rappresentazione della vita reale e inizia qualcosa di diverso io le ho sempre lette, forse ingenuamente, come delle soglie che ci fanno passare da qualche altra parte. Dove, non lo so proprio. Mi basta l’idea che, forse, c’è un’altra parte. Che posso cercare di afferrare con il linguaggio.

Nella poesia “Due dettagli del fascismo immaginario” sogna «che il fascismo finiva, / lentamente: perso una specie di referendum, / Mussolini stava già in esilio». Sarebbe stato un bene o un male, se questo sogno di fosse realizzato?

Quella poesia è proprio la trascrizione di un sogno. Ma come a tutti, anche a me capita di riflettere su cosa sarebbe successo se la storia fosse stata vagamente diversa, sul possibile. Che è, a pensarci bene, un altro modo di passare nell’universo dell’immaginario, magari con l’illusione che non lo sia del tutto. Insomma: di stare fuori dal reale ma, se è consentita la semplificazione, non troppo fuori. Alla seconda parte della domanda rispondo con uno slogan; sarebbe bello se la storia procedesse in modo lineare e graduale. Invece va avanti per salti e catastrofi. Il che, però, non può impedirmi di pensare: sarebbe bello...

In un’altra poesia invita a pensare «a certi disegni del Sant’Elia / […] come forme di bellezza semplificata. E che sembra senza cause». Che cosa rappresenta per lei l’architetto della “Città nuova”?

Ecco: non sono un esperto. Ma certi disegni che ho visto del Sant’Elia, certe realizzazioni del Terragni (citato tra l’altro dal grande poeta Giampiero Neri) mi hanno sempre affascinato. E il fascino sull’incompetente interessato qualche volta produce reazioni, e questi discorsi che sembrano strani. E magari non lo sono. O non del tutto. Azzardo un paragone: per me stare di fronte a certi disegni è un po’ come assistere a un gioco di cui non conosco le regole. Però, sto a guardare l’insieme dei giocatori in movimento, e avverto sensazioni importanti.

Nel libro cerca (anche) le proprie radici. Risale fino al 1821, quando Angiolo Santagostini «si è firmato con una croce sbieca, sull’atto di matrimonio». Per chi non viene da famiglie nobili, è difficile andare più indietro dei bisnonni. Quanto pesa questa incertezza sulle origini e quanto è importante colmarla?

Non provengo certo da una famiglia privilegiata... Ma come tutti, vorrei conoscere chi è stato qui prima di me, e chi prima ancora. Credo sia una tensione organica, biologica. E per andare indietro nel tempo, inevitabilmente, facciamo ricorso all’immaginazione, visto che a un certo punte le testimonianze mancano. E allora si ritorna al discorso che facevamo prima. Però è strano: se io mi rappresento chi è stato prima di me, chi mi ha preceduto direttamente, non penso a un fantasma. Ma a un essere reale, in carne ed ossa. Cosa faccio davvero, allora, in quel momento? Supplisco con una figura fittizia alla mancanza di dati? Salto oltre la storia? È un passaggio curioso, secondo me. Che ci trasporta in una zona ambigua. Tra la memoria e qualcosa che già non è più memoria.

La parola poetica sembra ancora avere, nel suo libro, il potere di riscattare almeno in parte le persone dall’oblio. Vale per i familiari come per il pittore Giandante X, i cui «lavori oggi non fanno prezzo». È così?

Sottolineiamo a oltranza quel giustissimo “almeno in parte”… Non credo alla funzione “pratica” della parola. Che, di fatto, non potrà mai trasformarsi in azione, anche se qualche futurista quasi lo ha pensato. Meno che meno, la parola può redimere. Chi non è passato alla storia è sparito, e basta. Lo posso rievocare, ma non cambio nulla. Quanto a Giandante X, non è poi un personaggio tanto sconosciuto, anzi: per alcuni è un artista “cult”. Il poeta Riccardi, per esempio, gli ha dedicato delle bellissime pagine. Ho in casa delle sue opere, le guardo tutti i giorni e da lì è nata l’idea di quelle poesie. Come sempre, chi scrive non inventa niente.

«Ci sono solo vite degne / d’essere vissute», scrive nella poesia “Oggi”. È una certezza o una speranza?

Per me è una certezza e mi auguro che non diventi una speranza. L’idea che ci sono vite che possono essere abolite perché indegne mi pare tremenda. Anche se è stata teorizzata, praticata.

Il suo “realismo magico” ha persino una “finestra” aperta sul paradiso: «Un giorno, anche lì si sarà a sorte / tra chi è beato, chi no”. Una visione poco rassicurante...

È una visione, appunto. Credo che tutti ci portiamo dentro l’idea di una vita a venire. E che l’immagine di una fine assoluta proprio non riusciamo a pensarla davvero. Sfugge. E, di nuovo, l’immaginazione entra in gioco. Forse è inevitabile. Se non sono in grado, proprio in quanto essere umano, di pensare il mio nulla, di forza devo sostituirlo con delle raffigurazioni. E non è detto che queste siano rassicuranti. Noto, adesso, che la nostra conversazione potrebbe essere riassunta in questo modo: lo spazio della vita (cosiddetta) reale non ci basta, ci stiamo stretti. E andiamo alla ricerca di un retroterra e di un futuro. La parola riesce a farlo. Dobbiamo fermarci qui? Forse sì. Ma anche: forse no.

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