«Questo Don Juan va in fondo all’anima»

L’intervista Sveva Berti , direttrice della compagnia Aterballetto, questa sera al Sociale di Como con lo spettacolo del coreografo Johan Inger

Ritorna al Teatro Sociale di Como la Fondazione Nazionale della Danza / Aterballetto, una delle realtà più significative del panorama nazionale e internazionale della danza. Alla compagnia spetta il compito di aprire, questa sera, venerdì 4 novembre, alle 20.30, la sezione dedicata al balletto nella Stagione Notte. (Biglietti da 19 a 35 euro più prevendita. Info e acquisto sul sito www.teatrosocialecomo.it e alla biglietteria del Sociale allo 031/270170. Si ricorda che sono ancora disponibili abbonamenti per la stagione di danza a 80 euro per quattro spettacoli).

Seguendo un ideale filo rosso con la Prima dedicata alla lirica, anche per la danza, ritorna in scena il personaggio – archetipo di Don Giovanni. Si intitola infatti “Don Juan” lo spettacolo che andrà in scena con le coreografie dello svedese Johan Inger, che da tempo collabora con Aterballetto e le musiche ad hoc del compositore Marc Álvarez. Sul palco della sala comasca saranno impegnati sedici danzatori. Lo spettacolo, che ha vinto il Premio Danza&Danza come ‘Miglior Produzione’ del 2020, racconta la vicenda del grande seduttore, sotto una luce nuova, con un maggiore scavo introspettivo e un occhio anche a sensibilità contemporanee. Ce ne parla la direttrice della compagnia, Sveva Berti.

Signora Berti, si può dire che il “Don Juan” di Inger proponga un’interpretazione che rimanda alla psicanalisi?

Sì, è una lettura corretta. Inger ha scelto di accostarsi alla figura di Don Juan per indagarne la personalità complessa e senza scrupoli, andando anche alla ricerca delle motivazioni che determinano le sue azioni e l’ossessione per la conquista di tante donne.

In particolare, è davvero significativa la sostituzione della figura del Commendatore con una donna, la Madre. Una scelta molto forte…

Questa Madre è una vera novità. Ella incarna il trauma dell’abbandono subito, in giovane età, dal protagonista. Una vicenda che spiegherebbe il suo comportamento, nell’ottica psicanalitica. Il lavoro di riscrittura della storia di Don Giovanni è stato realizzato da Inger e dal drammaturgo Gregor Acuña-Pohl che ha studiato diverse versioni del “mito” del Seduttore di Siviglia, per arrivare alla propria interpretazione.

Anche il personaggio di Leporello viene riletto in modo inusuale. In che modo?

Leporello qui non è più (o non più solo) il servo di Don Juan che vive tra obbedienza e sguardo critico le avventure e le malefatte del suo padrone. Nel nostro allestimento, egli è l’alter ego del Seduttore, la parte buona, che cerca di sviare Don Juan dalle sue azioni criminose, ma non viene ascoltata. Si crea così una dialettica di contrasto tra bene e male, tra libertà e senso di colpa. Questo effetto di specularità è poi esaltato dalle luci bellissime e intime, pensate da Fabiana Piccioli e dalle scenografie di Curt Allen Wilmer. I costumi poi sono di Bregje Van Balen.

La danza dunque vuole raccontare non solo una famosissima storia ma anche i sentimenti e gli stati d’animo che la determinano?

Johan Inger ha lavorato con moltissima cura sulla espressività dei danzatori, proprio per fare in modo che essi riuscissero a “scavare” dentro i propri personaggi, facendone emergere la personalità. Noi definiamo questo “Don Juan” uno “spettacolo da camera”, proprio per questo sforzo ad andare in profondità, nell’anima delle figure in scena.

In che modo le musiche di Álvarez si legano alla coreografia?

Si tratta di musiche originali composte proprio per lo spettacolo. Il compositore ha creato una colonna sonora con riferimenti cinematografici, molto funzionale alla coreografia, in tutti i suoi momenti, molto diversi tra loro.

Questo spettacolo che ha debuttato poco prima del lockdown ha attraversato un percorso ad ostacoli, ma sta raccogliendo anche molte soddisfazioni…

Sì, siamo contenti del riscontro che la coreografia sta ottenendo e a breve partiremo per una tournée in Francia ed in Spagna. Paradossalmente, proprio le difficoltà e l’attesa hanno fatto sì che il risultato del lavoro fosse ancora più intenso e profondo.

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