Morti in corsia, Cazzaniga si difende
«Io non uccidevo: evitavo sofferenze»

L’ex viceprimario del Pronto soccorso di Saronno ha letto in udienza una lettera: «La mia priorità non era essere simpatico»

Ha citato Bertrand Russell mostrando la propria dimensione più umana.

Ha ribadito la propria innocenza, facendo tuttavia “mea culpa” rispetto agli atteggiamenti di superiorità tenuti a Saronno verso il personale ospedaliero.

È il contenuto della lettera di Leonardo Cazzaniga, l’ex vice primario del pronto soccorso di Saronno, accusato di 15 omicidi volontari per i quali la Procura ha chiesto la condanna all’ergastolo, letta da lui stesso in tribunale lunedì pomeriggio.

«Come Bertrand Russell anche nel mio caso tre passioni semplici, ma irresistibili, hanno governato la mia vita: la sete d’amore, la ricerca della conoscenza e una struggente compassione per le sofferenze dell’umanità. Questo è l’uomo che oggi vi parla e che voi oggi siete chiamati a giudicare. Durante questi ormai tre anni di processo più e più volte sono stato dipinto come uomo e come medico arrogante e pieno di sé, uso a maltrattare e offendere chi mi stava a fianco e con me collaborava al pronto soccorso di Saronno».

Cazzaniga ha difeso la propria professionalità: «Non posso e non voglio in alcun modo negare le caratteristiche personologiche ascrittemi in ambiente lavorativo, ma rivendico con orgoglio l’impegno e la dedizione profusa durante tutta la mia carriera professionale. La mia priorità, dettata dal giuramento svolto ormai tanti anni fa, non è mai stata essere simpatico ai miei colleghi o amato da chi lavorava al mio fianco, ma fornire ai miei pazienti la massima attenzione e il più elevato standard di cura possibile».

«Sono assolutamente consapevole che questa mia pretesa mi ha reso inviso, e me ne faccio vanto, sgradevole agli occhi della maggior parte dei miei colleghi. Ho però coltivato l’ambizione di essere un medico e non un mero professionista in camice bianco, impegnandomi a instaurare un rapporto umano con i pazienti che si affidavano alle mie cure in pronto soccorso».

Poi l’assunzione di responsabilità: «Ammetto che è stato un errore marcare questa distanza tra me e chi non la pensava come me. Forse è stato un errore erigere un muro di sgradevolezza tra me e chi non la pensava come me, forse è stato un errore salire sul piedistallo del mio ego isolandomi da chi non reputavo alla mia altezza, ma ciò mi ha consentito di essere un medico».

«L’odio e il disprezzo raccolto anche in quest’aula svanisce dinanzi alle molte attestazioni di stima che mi sono giunte da parte di alcuni colleghi medici e di alcuni amici infermieri e soprattutto dei molti pazienti curati in questi anni e dei loro cari che mi hanno descritto come un medico attento ed empatico».

Poi sul Protocollo: «Ho inteso sintetizzare un approccio eminentemente di natura etico-morale volto a impedire ai morenti di percepire la vicinanza della fine, nella convinzione che una morte serena altro non sia che la declinazione finale di una buona vita. In queste situazioni è stato mio precipuo intendimento liberare i miei pazienti dal dolore e dalla sofferenza agonica che li opprimeva».

E ancora: «Non ho mai inteso somministrare farmaci volti a cagionare la morte dei miei pazienti. Proprio per questo motivo non ho mai fatto alcun mistero dell’intenzione di applicare il mio protocollo a quei pazienti prossimi alla morte e in condizione di profonda sofferenza» .

«Non mi riconosco nell’immagine di uno spietato assassino - ha concluso -. Il mio scopo è stato sempre quello di evitare le atroci sofferenze dell’agonia, lenendo o abolendo la percezione dei sintomi che si presentano nel momento del trapasso dalla vita alla morte. Sono completamente estraneo rispetto agli omicidi dei familiari di Laura Taroni».

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