Il no alle armi di Gesù, ancora inascoltato

Inizia la settimana santa con una guerra vicina. Utile riflettere sulle parole del Salvatore nella notte del Getsemani, quando Simon Pietro ferì una delle persone che lo stavano arrestando: «Rimetti la spada nel fodero»

Entriamo nella Settimana Santa ancora con l’incubo dei rumori di guerra vicini a noi, col conflitto in Ucraina ancora aperto e sanguinante. E lo facciamo riprendendo un simbolo del racconto della passione di Gesù. «Chi prende la spada di spada perirà. Ma chi non prende la spada (o la lascia cadere) perirà sulla croce». Così scriveva nel 1947 Simone Weil nella sua opera “Le pesanteur et la grâce”, rimandando alle parole di Cristo in quella notte drammatica, sotto le fronde degli ulivi del Getsemani. Questa straordinaria donna ebrea, affascinata dalla figura di Gesù, prefigurava l’ascesa al colle del Golgota da parte di colui che, già agli esordi della sua vita pubblica, aveva dichiarato senza esitazione: «Io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra» (Matteo 5,39).

Ma ritorniamo a quella notte e agli atti concitati legati all’arresto di Gesù. Ora, dopo il gesto sconcertante del bacio di Giuda, il traditore, nell’orto del Getsemani «uno dei presenti», secondo Marco, «un discepolo», secondo Matteo e Luca, identificato dall’evangelista Giovanni in Simon Pietro, audace e impulsivo (lo sarà poco dopo anche nel tradimento), estrae una spada, colpisce un servo del sommo sacerdote – che era nella pattuglia venuta a catturare Gesù – e gli mozza l’orecchio destro. Lo stesso Giovanni ci offre anche il nome della vittima, Malco («il suo re»), un nome diffuso in quel tempo. L’evento è narrato con le naturali varianti redazionali dai Sinottici (si veda, ad esempio, Matteo 26,51-56) e dal quarto Vangelo (18,10-11). A questo punto ecco il quesito legittimo: i discepoli di Gesù o almeno alcuni di loro, come Pietro, andavano in giro armati?

La risposta di ordine generale ce la offre uno storico contemporaneo di san Paolo, l’ebreo Giuseppe Flavio, il quale nella sua opera Antichità Giudaiche ammette la possibilità di portare armi persino di sabato e in occasione della festa di Pasqua per legittima difesa personale. Lo stesso storico ci ricorda che anche gli Esseni, il gruppo giudaico molto rigoroso presente probabilmente pure a Qumran (il luogo dei famosi documenti trovati nelle grotte della riva del mar Morto), recavano con sé armi durante i viaggi perché le strade erano infestate da briganti (si pensi alla parabola del Buon Samaritano). Anzi, alcuni passi del Talmud – che raccoglie le antiche tradizioni giudaiche – ammettono il possesso di una spada quasi come componente dell’abbigliamento dell’ebreo in certi territori a rischio, soprattutto di confine.

Non bisogna dimenticare che i discepoli appartenevano a una cultura e a un periodo storico ben preciso e quindi ne riflettevano le caratteristiche. Questa presenza di una spada al momento dell’arresto di Gesù è forse da spiegare risalendo nel tempo, a poche ore prima della vicenda del Getsemani. Gesù con i discepoli è nel Cenacolo; si è appena celebrata la santa cena con il pane e con il vino. Cristo parla ai discepoli e rievoca quel giorno in cui li aveva inviati in una prima missione, senza borsa né bisaccia né sandali.

Ora, però, dice: «Chi ha una borsa la prenda e così una bisaccia; chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una». I discepoli reagiscono mostrando due spade in loro possesso, probabilmente per le ragioni sopra dette (tra l’altro essi provenivano dalla Galilea, territorio di confine e quindi a rischio). Gesù di fronte al fraintendimento delle sue parole replica sconsolato e quasi rassegnato: «Basta!». Commenta uno studioso: «L’ironia riguarda non il numero delle spade, bensì l’intera mentalità degli apostoli». L’episodio è narrato da Luca (22,35-39). Cristo, infatti, aveva adottato in quelle sue parole solo una metafora per evocare la potenza della Parola e del suo messaggio.

L’evento del cenacolo si collega idealmente alla scena del Getsemani dove, sempre secondo Luca, i discepoli, «vedendo ciò che stava per accadere, dissero: Signore, dobbiamo colpire con la spada?». E senza attendere risposta da Cristo, ecco il fendente sull’orecchio del servo del sommo sacerdote. Gesù ancora una volta, con tristezza, ripete la stessa frase: «Lasciate, basta così!» (Luca 22,49-51). Commenta un altro esegeta: «Continua il fraintendimento letterale dei discepoli i quali pensano che Gesù li voleva armati di spade: questa spada è una delle due che avevano detto di possedere».

Come si è detto, Gesù aveva parlato di spada in tutt’altro senso. Dopo tutto non era stato lui a dire di sé: «Non sono venuto a portare pace, ma la spada» (Matteo 10,34)? Egli, in realtà, intendeva affermare che ormai era giunto il tempo della lotta contro il potere delle tenebre. Si era ormai compiuta la divisione, netta come il taglio di una spada, tra bene e male, tra Cristo e il passato, tra il Salvatore e Satana. La spada era, quindi, il simbolo di un’attrezzatura spirituale e non esteriore, più o meno come dirà san Paolo quando raffigurerà «l’armatura di Dio perché possiate resistere nel giorno malvagio e restare in piedi dopo aver superato tutte le prove» (si legga Efesini 6,13-17).

Non per nulla, di fronte all’ottusità dei discepoli, Gesù avrà ancora tempo per ammonire il discepolo, subito dopo quel gesto inconsulto: «Rimetti la spada nel fodero, perché tutti quelli che mettono mano alla spada di spada periranno» (Matteo 26,52). Egli con questo appello ammiccava a un assioma posto agli esordi della storia umana secondo la Bibbia quando, dopo il giudizio del diluvio, il Creatore affermerà a Noè: «Chi sparge il sangue dell’uomo, dall’uomo il suo sangue sarà sparso» (Genesi 9,6). Ribadiva, così, la legge della non violenza, che abbiamo già citato, formulata nel Discorso della montagna con le famose immagini della guancia, del mantello e del miglio di strada (Matteo 5,38-41).

Quindi Gesù non voleva attorno a sé un gruppo di guardie del corpo né tanto meno aveva favorito un atteggiamento di autodifesa armata, anche se – come si è detto – non era raro possedere un’arma da parte degli Ebrei. La lezione di Cristo era, comunque, ben diversa e purtroppo, come era accaduto e accadrà per altri suoi insegnamenti, essa era caduta nelle reti del fraintendimento e dell’equivoco, come per altro accade anche i nostri giorni quando – in modo blasfemo – un aggressore violento assume una frase di Cristo sull’amore senza limiti (Giovanni 15,13) per sostenere assurdamente una guerra devastante.

Anzi, sempre in quella notte, secondo la testimonianza dell’evangelista Luca, di professione medico, Gesù aveva compiuto un gesto di compassione nei confronti di quel servo ferito, arrestando forse l’emorragia dell’orecchio mozzato: «toccandogli l’orecchio, lo guarì» (22,51). E ancora, con lucida serenità, aveva ribadito che la sua passione si inseriva in un disegno più alto che il Padre divino aveva già delineato e a cui egli si sottoponeva con consapevolezza: «Credete che io non possa pregare il Padre mio, che metterebbe subito a mia disposizione più di dodici legioni di angeli? Ma allora come si compirebbero le Scritture, secondo le quali così deve avvenire?» (Matteo 26,53-54).

Idealmente, a conclusione di questa scena della spada, potremmo – facendo avanzare il filo del racconto evangelico – salire sul colle del Golgota ove il Crocifisso morente pronuncia, come è noto, sette frasi finali. Ebbene, questo settenario di parole si apre con questa invocazione al Pàter celeste: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno» (Luca 23,34). Anche se drammatiche e desolate, le ultime ore della vita terrena di Cristo non infrangono, quindi, il filo del legame con Dio Padre. A lui egli affida il supremo atto del perdono nei confronti di coloro che gli stanno distruggendo l’esistenza, torturandolo e umiliandolo.

Questa implorazione è stata da sempre interpretata come un atto di intercessione. Durante il suo ministero pubblico Cristo ha spesso perdonato lui stesso i peccati, attirandosi la critica severa dei teologi ufficiali del suo tempo. Ora egli sta vivendo l’esperienza più autentica e radicale dell’essere uomo, assumendo il dolore, la solitudine e la morte, che sono le qualità più specifiche delle creature, la loro carta d’identità adamica comune. È, dunque, dalla nostra parte, spalla a spalla con noi.

E, mentre sperimenta il peso totale dell’essere uomo, assumendone in sé tutte le caratteristiche, non maledice, non giudica, ma si presenta al Padre come l’intercessore per tutti i suoi fratelli nella carne, compresi i peggiori. Egli è come Abramo che supplica il Signore per Sodoma e Gomorra (Genesi 18,17-33); è come Mosè che allega la sua solidarietà con Israele, anche se peccatore, per ottenere da Dio il perdono (Esodo 32,31-32); è come il Servo del Signore cantato da Isaia, figura riletta in chiave messianica dal cristianesimo, che «portava su di sé il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli» (53,12). Col suo gesto, quindi, si allinea a noi, anche a quelli più infami tra noi e proclama non l’abbandono e il disprezzo nei confronti dei peccatori, reggendo su di sé anche il loro male più profondo per affidarlo al perdono divino.

Gesù, con questo atto, offre anche una lezione per i suoi seguaci. Essa trova la sua applicazione in Stefano, il discepolo fedele, quando nel racconto della passione di questo protomartire, Luca gli mette in bocca in pratica le stesse parole di Cristo morente: «Signore, non imputare loro questo peccato» (Atti 7,60). Quella di Gesù sulla croce e del suo discepolo Stefano è una scelta ben diversa rispetto all’atteggiamento di alcuni oranti dell’Antico Testamento che, pur positivamente affidando a Dio la loro causa e non facendosi giustizia da se stessi, chiedevano una vendetta divina: «Signore degli eserciti, che provi il giusto, che vedi il cuore e la mente, possa io vedere la tua vendetta su di loro, perché a te ho affidato la mia causa» (Geremia 20,12). Cristo e Stefano sono consapevoli della violenza che subiscono e non negano la giustizia, ma invocano da parte del Giudice supremo, il Padre divino, il perdono nei confronti dei loro uccisori, nella speranza che il loro cuore sia toccato e si convertano.

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