Cabiate: «Gabriel poteva salvare Sharon»
Ecco perché la condanna all’ergastolo

Le motivazioni della Corte d’Assiste di Como per l’orrore dell’11 gennaio 2021

Ci fu una «piena lucidità nell’agire», prima fornendo alla mamma una foto della piccola Sharon Barni intenta a giocare – in realtà ricostruita in modo che sminuisse quanto stava avvenendo – poi anche una versione alternativa, quella della stufetta scaldabagno caduta dall’alto di una scarpiera, che aveva colpito al capo la bimba di appena 18 mesi causandone in seguito il decesso per le ferite riportate.

Versione che era rimasta valida per giorni, almeno fino a quanto il medico legale consulente dell’accusa, i carabinieri della Compagnia di Cantù e il pm Antonia Pavan, avevano minato alla base il racconto fornito dal sospettato. Eppure, nonostante «condotte impressionanti di violenza su una bambina», Sharon avrebbe potuto essere salvata se solo l’imputato avesse avvisato per tempo i soccorsi e non solo ore dopo come avvenne.

La Corte d’Assise di Como, che ha condannato all’ergastolo Gabriel Robert Marincat, rumeno di 26 anni all’epoca dei fatti compagno della mamma della bambina, ha depositato le motivazioni della sentenza di primo grado che era stata letta ad inizio dicembre. La pubblica accusa aveva accusato l’imputato di avere ucciso «colpendola ripetutamente» la piccola Sharon di appena 18 mesi che gli era stata affidata dalla madre e che avrebbe dovuto accudire in quel pomeriggio in cui la ragazza era impegnata per lavoro a Monza. Delitto avvenuto a Cabiate l’11 gennaio del 2021.

I medici del 118 la trovarono distesa sul tavolo della cucina, al momento dell’intervento (era ormai sera, quando le prime percosse avvennero nel primo pomeriggio), la trasportarono in elicottero all’ospedale di Bergamo ma non riuscirono ad evitare che la tragedia si compisse.

Eppure, si legge nelle motivazioni di un processo che si era tenuto a porte chiuse, secondo il consulente medico legale della procura, «se i soccorsi fossero stati tempestivamente attivati la minore si sarebbe salvata». Il presidente della Corte, Luciano Storaci, nelle 31 pagine a sua firma, ricorda come Marincat avesse dichiarato di aver voluto tenere la piccola, quel giorno, per aumentare «la confidenza» con lei, bimba che «aveva iniziato a chiamarlo papà». L’imputato mai ha dato spiegazione al suo gesto, parlando genericamente di «nervosismo» e «stato di agitazione che era subentrato» quando era rimasto solo con la piccola. Per la corte tuttavia non vi sarebbe «alcun dubbio sul dolo diretto omicidiario», con la «consapevolezza di cagionare la morte» di Sharon, evento «comunque accettato».

Non ha trovato spazio nemmeno la pista della perizia sulla capacità di intendere e di volere: «Mai Marincat, seppur con dichiarazioni contraddittorie – scrivono i giudici – ha mai detto di aver agito per effetto di una crisi si astinenza. Una mera condizione di dipendenza da droghe, se non accompagnata da altri elementi indicativi di una grave compromissione delle facoltà mentali, anzi in presenza di plurimi elementi di segno opposto, non consente il riconoscimento del vizio totale o parziale di mente».

In conclusione dunque, Marincat si mosse con «piena lucidità», «creando ad arte foto che sviassero i sospetti» comportandosi in un modo «tale da condurre al peggioramento delle condizioni di Sharon fino al decesso».

(Mauro Peverelli)

© RIPRODUZIONE RISERVATA