Caro zaino, compagno di viaggio

Pubblichiamo, per gentile concessione della casa editrice Ediciclo, uno stralcio del nuovo libro di Sergio Valzania, “Mai lasciare lo zaino vecchio per quello nuovo” (128 pagine; 13,50 euro)

Lo zaino di Bruce Chatwin l’ho visto in originale. Era esposto in una teca al palazzo Ducale di Genova, trattato e illuminato con il rispetto dovuto a una reliquia laica, nel contesto di una mostra di fotografie del celebre scrittore inglese allestita per il Premio Chatwin del 2009. In quel contesto, nel corso di un incontro dedicato al viaggiare a piedi, ho conosciuto Bernard Ollivier e Riccardo Carnovalini, due dei viandanti contemporanei più noti, che a piedi sono stati dappertutto, anche in condizioni estreme. Sentirli parlare, ascoltare il racconto delle avventure che hanno vissuto - le loro meritano di essere chiamate così - fa venire voglia di muovere i piedi.

L’ambientazione chatwiniana dell’occasione era adeguata e coerente a quello che accadeva, l’ho apprezzata molto e mi ci sono calato, anche se come lettore non sono mai riuscito ad affrontare con lo spirito giusto “In Patagonia”, “Le vie dei canti” e gli altri racconti di viaggio che hanno reso famoso lo scrittore inglese. Forse sono invidioso dei suoi vagabondaggi e della capacità di guardarsi attorno che dimostra, del successo che ha incontrato – chi non lo è almeno un po’? –, rimane il fatto che il mio modello di viaggiatore letterario non è lui, sono invece un fan di Patrick Leigh Fermor, un altro inglese, nato nella generazione precedente, nel 1915, durante la prima guerra mondiale, mentre Chatwin è del 1940, venuto al mondo quando la seconda era scoppiata da pochi mesi.

Due vite avventurose

Due vite completamente diverse: Chatwin ha viaggiato per tutti i continenti, ha scritto moltissimo, ha fotografato tanto ed è morto giovane, senza aver compiuto i cinquant’anni. Fermor ha trascorso un’esistenza almeno altrettanto avventurosa – tra l’altro nel febbraio del 1944 rapì il generale Heinrich Kreipe, che comandava le truppe di occupazione tedesche a Creta, lo fece imbarcare su di un sommergibile britannico e lo portò in Inghilterra – e si spense a novantasei anni, nel 2011. Riuscì a dedicare le ultime energie a riordinare le idee e gli appunti relativi ai suoi viaggi di gioventù, in particolare quello intrapreso nel 1933, quando raggiunse a piedi Istanbul dall’Inghilterra, metà pellegrino, metà spia inglese. Dormiva a volte sotto i ponti, altre ospite nei lussuosi palazzi degli ultimi rappresentanti dell’aristocrazia mitteleuropea sopravvissuta alla prima guerra mondiale, che stava per essere cancellata dalla seconda.

Fermor ha scritto anche “Mani”, racconto di un viaggio nell’estrema punta sud del Peloponneso, dove abitano i pretesi discendenti degli spartani, in case-fortezza che hanno feritoie al posto delle finestre. A sua firma e dedicati a lunghi itinerari percorsi a piedi sono usciti invece “Tempo di regali”, “Fra i boschi e l’acqua” e “La strada interrotta”, dove è inserito il ricordo di una visita al Monte Athos. La distanza di tempo tra lo svolgersi dei fatti e la redazione finale delle memorie, insieme alla mancanza degli appunti originali che Fermor ammette senza difficoltà di aver perduto da decenni, priva il racconto di una base documentale, più che un resoconto circostanziato ne fa una libera ricostruzione, all’interno della quale la fantasia gioca la sua parte con un certo arbitrio, a riprova del fatto che la memoria è attività creativa per eccellenza. Questo avvolge la rievocazione in una poetica delicata, che mescola con naturalezza le impressioni di un giovane con la bonaria pacatezza dell’anziano che le richiama alla mente.

La Grecia, quella vera...

Della biografia di Fermor mi affascinano la determinazione con la quale ha coltivato ciò che gli piaceva e lo interessava e la passione, che condivido, per la Grecia, quella vera, contemporanea, nella quale sa riconoscere i tratti ancora emergenti della classicità insieme a quelli bizantini, il rigore della spiritualità ortodossa e persino qualche venatura della ferocia dimostrata da entrambe le parti nelle guerre balcaniche.

L’autore inglese non è mai alla ricerca dell’esotico, di un sovrappiù nascosto nell’occhio di chi guarda, si appassiona nell’incontro con quello che trova nel mondo, dove dimostra di sapersi muovere con grande capacità di scegliere dove, come e con chi preferisce stare, fino a trasferirsi a vivere nell’amato Peloponneso. La sua scrittura non ha niente di esibito, di chiassoso, di eccessivo, semmai ha un ritegno che lascia spazio alle integrazioni alla vicenda che la fantasia del lettore intende apportare.

Il suo zaino non l’ho mai visto, ma credo fosse simile a quello di Chatwin. Quello esposto a Genova era di cuoio, non grande, direi 35/40 litri, robusto, con gli spallacci più stretti di quelli che si usano adesso, in grado di trasmettere una generale impressione di solidità e insieme di pesantezza, forse anche maggiore di quella reale. Non so cosa si portasse dietro Fermor negli anni Trenta del secolo scorso, quasi cent’anni fa. Probabilmente il contenuto era simile a quello selezionato da Chatwin qualche decennio dopo, con l’eccezione della macchina fotografica, della quale il primo non fa cenno. Viaggiatori rudi, in confronto a quelli attuali, almeno per quanto mi riguarda, formati alla leggerezza del bagaglio dalla mancanza delle comodità domestiche delle quali godiamo oggi e che sogniamo di riprodurre ogni sera, al termine della tappa percorsa, in qualsiasi luogo ci troviamo quando andiamo in cerca di una doccia calda e di un ricambio di biancheria.

Un dono di Dio

Quanto al mio zaino, non sono stato io a sceglierlo. È un dono, di Dio, come in generale è per tutto quello che ci capita al mondo, e nello specifico anche dei miei colleghi di lavoro: me lo hanno regalato quando si sono accorti che quella di camminare non era una vaghezza passeggera, di quelle che si è soliti attribuire ai cinquantenni posti davanti alla constatazione che larga parte della vita, e l’intera giovinezza, sono ormai spese e che bisogna inventarsi qualcosa per far finta che non sia così.

No, le poche giornate trascorse sul Cammino di Santiago mi avevano fatto scoprire quello che è uno dei grandi amori della piena maturità. Dopo Santiago, la Francigena e poi sarebbero venute altre avventure, ancora non si sapeva con esattezza quali, ma era chiaro che ci sarebbero state. Allora i colleghi fecero una colletta in occasione di un compleanno, andarono dal mio fornitore abituale di attrezzature da cammino e si fecero consigliare per il meglio. Così, all’alba dei miei cinquantacinque anni ho ricevuto un bello zaino nuovo, con il quale intraprendere i viaggi a piedi che sognavo.
Sergio Valzania

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