Coronavirus: «Vedo ancora il primo paziente
È morto solo e in poche ore»

Anna Natalizi, medico al Pronto soccorso del Valduce: «Un ottantenne brillante, che godeva di ottima salute, non aveva particolari patologie e faceva una vita di alta qualità. In sole 24 ore è precipitato senza possibilità di salvarlo e senza potergli fare salutare i suoi parenti»

Marzo 2020. E chi se lo dimenticherà mai? Di certo non gli operatori degli ospedali e quelli del pronto soccorso in particolare. Bersagliati quotidianamente di volti impauriti, pazienti senza fiato, storie di dolore e di speranza. Ma tra tutti quegli sguardi, quei racconti, quegli uomini e donne salvati e non, ogni sanitario si porta dietro un’immagine su tutte. Una storia più di altre.

«Il ricordo che porto con me?

Il primo paziente entrato in pronto soccorso con diagnosi di coroanvirus. Un ottantenne brillante, che godeva di ottima salute, non aveva particolari patologie e faceva una vita di alta qualità. In sole 24 ore è precipitato senza possibilità di salvarlo e senza potergli fare salutare i suoi parenti. Per me è stato il primo contatto, traumatico, di cosa voleva dire questa malattia».

L’ospedale da riorganizzare

Anna Natalizi è una dottoressa del pronto soccorso del Valduce. Più precisamente: è la direttrice di unità operativa semplice dell’Obi (osservazione breve intensiva). E, come tutto il personale del reparto d’emergenza al Valduce, così come al Sant’Anna o negli altri ospedali lombardi, dall’arrivo del virus è in prima linea nel cercare di curare le centinaia di pazienti transitate dal ps.

«Nei primi giorni mi sono occupata della riorganizzazione del pronto soccorso proprio in vista dell’emergenza Covid - racconta - Abbiamo dovuto letteralmente duplicare il reparto. La difficoltà maggiore è stata quella di dover duplicare anche il materiale, il personale, gli spazi per poter realizzare due ps. Quindi creare percorsi differenti e aree distinte tra infetti e non infetti. E il tutto abbiamo dovuto farlo in brevissimo tempo». Ma in via Dante non si è atteso l’arrivo dello tsunami per ripensare l’ospedale.

«Da quando sono emersi i primi casi a Codogno ci siamo mossi, perché era chiaro che la cosa ci avrebbe riguardato presto. Quindi, quando è arrivata l’ondata a Como, eravamo già organizzati». E nonostante questo le difficoltà non sono mancate: «È stato molto utile confrontarci con gli altri pronti soccorso per sapere cosa ci dovevamo aspettare, quali sarebbero potuti essere i problemi maggiori da gestire. A cominciare con l’approvvigionamento del materiale». A Codogno, ad esempio, appena è scoppiata l’emergenza l’ospedale, in brevissimo tempo, si è trovato senza ossigeno sufficiente. «Abbiamo capito che dovevamo moltiplicare medicinali, presidi, materiale in genere». La dottoressa Natalizi fa un esempio: «In ospedale si tengono scorte adeguate per gestire l’ordinario e le emergenze; ma qui ci siamo ritrovati a consumare in meno di un mese le scorte di ossigeno che solitamente ci bastano per quattro mesi abbondanti. Ma finisce che tutto diventa difficile da reperire: le siringhe dell’emogas, per esempio o le maschere per l’ossigeno».

E qui, fortunatamente, l’ingegno ha sopperito alle carenze, con le maschere da sub riadattate: «Funzionano e anche molto bene. È stata un’ottima soluzione che ci ha permesso di garantire l’ossigenazione dei pazienti».

La direttrice del pronto soccorso torna ai primi giorni di emergenza: «Quando ci siamo accorti che iniziava? Il giorno stesso in cui le ambulanze hanno cominciato a soccorrere pazienti Covid. All’improvviso, da un giorno con l’altro, abbiamo avuto il pronto soccorso dedicato agli infetti sovraffollato e l’altro che si è praticamente svuotato». Uno svuotamento che, per Anna Natalizi, porta con sé un mix di spiegazioni: «Molti per paura sono rimasti a casa. E molti atri venivano per cose per niente urgenti e, con il rischio di contagio, hanno ovviamente rinunciato. È stato però importante che il pronto soccorso generico fosse vuoto. Questo reparto funziona bene se non è sovraccarico e può gestire le urgenze con spazi e tempi necessari».

Gestire le emozioni

Al di là dell’aspetto medico e professionale, lo tsunami Covid ha travolto anche emotivamente la dottoressa Natalizi e i suoi colleghi: «Appartengo a un gruppo di lavoro molto fortunato e di cui sono estremamente orgogliosa. Fin da subito infermieri, medici, operatori sanitari si sono dati da fare ben oltre il loro dovere e, tornati a casa, hanno passato il tempo a studiare e informarsi sul virus. Dopotutto per noi si trattava di avere a che fare con pazienti del tutto nuovi, con caratteristiche da comprendere e che dovevamo gestire in modo diverso rispetto al passato».

Ma per quanto affiatato possa essere il gruppo, alla fine del turno si torna a casa con il proprio bagaglio di emozioni: «A tutti pesa il fatto che le persone che arrivano qui siano sole e spaventate. È difficile da gestire emotivamente. Ci siamo attrezzati con tablet per le videochiamate a casa, ma anche questa scelta è emotivamente molto forte, perché le persone a casa sono già molto preoccupate e dall’altra parte vedono il loro parente con il casco della cpap o la maschera per l’ossigeno».

E sul lettino i malati si sentono smarriti: «La preoccupazione è evidente. La prima cosa che chiedono? Vogliono avere una prospettiva, avere un’idea di cosa gli aspetta e poter parlare con i parenti».

E a proposito di prospettive, è vero che la pressione sugli ospedali sta diminuendo? «In realtà per Como il picco è adesso, perché da noi il virus è arrivato dopo. I numeri che gestiamo sono sempre quelli da quando è iniziata l’emergenza. Ma sì, i colleghi di Milano e Monza sentono una decrescita. Speriamo tutto questo passi presto».

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