Errori, dimenticanze e zero risposte
«Dopo il contagio 70 giorni di odissea»

Ragazza comasca con sintomi dal 14 marzo, una vicenda che non si è ancora conclusa - «Informazioni carenti o in ritardo e la pratica era finita a Varese». Solo ieri si è fatta viva l’Ats

Una storia infinita che vede protagonisti una 28enne comasca colpita da coronavirus e la sua famiglia. Dal 14 marzo la vicenda non è ancora conclusa. A raccontarlo è Roberta Beretta, madre di una educatrice in una comunità.

E’ la metà di marzo quando la 28enne accusa i primi sintomi. Nei giorni precedenti si era ritrovata con 8 dei 10 utenti di cui si occupava febbricitanti e il periodo non faceva pensare a nulla di buono. Contatta così il numero verde regionale e, vista la presenza di sintomi compatibili con Covid-19, le viene consigliato di stare a casa e di attendere l’iter previsto. «Inizia questa grande avventura - racconta Beretta - che ancora non è giunta al termine. Non puoi andare dal medico, lui non può venire da te e ti monitorano telefonicamente».

Nel frattempo, ai sintomi iniziali, si aggiunge la perdita di olfatto e nella comunità alcuni utenti vengono ricoverati. Risulteranno positivi e per alcuni purtroppo arriverà il decesso. «A quel punto Ats chiede i nominativi del personale – spiega – ma nessuno ad oggi, quindi dopo due mesi, è stato chiamato». La figlia della donna scrive ad Ats spiegando di essere a casa in malattia con i sintomi da Covid 19 ma nessuno le risponde. «Era diritto di chi si è contagiato essere informato ed attuare le precauzioni del caso – spiega la madre - ma eravamo nel periodo critico, con le terapie intensive al collasso e la concentrazione sui pazienti a domicilio era quasi nulla».

A un mese dall’inizio dei sintomi viene eseguita una Tac che conferma la polmonite da coronavirus. Tutto questo accade accanto alla famiglia che, senza un tampone eseguito alla ragazza, non può essere considerata in isolamento. E’ il buonsenso a far prendere le precauzioni del caso, non escono mai.

Quaranta giorni dopo arriva il tampone: positivo. «Ats chiama mia figlia – spiega - a questo punto abbiamo le indicazioni scritte per l’isolamento, fornite dall’ospedale. Ats chiede i nominativi dei familiari conviventi, ma noi dal 22 aprile ad oggi, non siamo mai stati contattati».

Due mesi dopo la ragazza è ancora molto provata dalla malattia. Nessuno fornisce informazioni utili, è sempre la famiglia a chiamare Ats. Prosegue l’odissea tra la richiesta di tamponi e test sierologici. Il marito della donna che lavora a contatto con le persone, non riprende l’attività, con conseguenze anche economiche. Non conoscendo il suo stato di salute non sa se può contagiare clienti e collaboratori.

Proseguono le chiamate ad Ats, ma la situazione è in stallo. Alla donna viene detto che la famiglia verrà contatta da Asst ma nulla accade. Così è lei stessa a chiamare scoprendo che i nominativi sono finiti alla Asst Sette Laghi e non alla Lariana. Il 26 maggio e dopo mille richieste, finalmente i sierologici. E soltanto ieri si è fatto vivo l’Ufficio pubblica tutela di Ats che «cercherà di capire meglio la situazione».

«La nostra storia sicuramente è una delle tante, neppure delle peggiori, perché fortunatamente siamo tutti vivi – conclude la donna che ha scritto una lettera non solo ad Ats ma anche alla Regione -, ma mette in luce gli errori, le mancanze, le incongruenze dei protocolli, la responsabilità delle istituzioni sul mancato contenimento della pandemia nella fase 1 e la responsabilità sul passaggio alla fase 2 in sicurezza».

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