Interrogato in Questura
Il delirio dell’omicida
«È morto come un cane»

Confuso, delirante, per nulla pentito davanti ai detective della squadra mobile. «Il prete faceva parte di un complotto contro di me»

Non c’è alcuna perizia che sancisca un problema psichiatrico. Ma la folle rivendicazione dell’assassinio di don Roberto, sembra il frutto quantomeno di una mente confusa. Confessa il suo delitto, Ridha Mahmoudi, 53 anni, tunisino irregolare pur se ha trascorso più della metà della sua vita in Italia. Lo fa quasi con orgoglio davanti ai detective della squadra mobile della Questura, in un interrogatorio tutt’altro che semplice, per nulla lineare, condito da momenti di vaneggiamento.

Una cosa è certa: Mahmoudi, ieri, voleva uccidere qualcuno. Non fosse stato don Roberto, probabilmente sarebbe toccata ai suoi avvocati. Oppure al giudice di pace, davanti al quale doveva presentarsi per un procedimento legato all’accusa di essere rientrato clandestinamente in Italia nonostante l’espulsione.

La rivendicazione

Il momento più drammatico dell’interrogatorio è stato quello in cui ha rivendicato l’omicidio, esclamando: «È morto come un cane». Ma di fronte alle domande del pubblico ministero Massimo Astori, che ha partecipato alla fase finale dell’interrogatorio (il magistrato era impegnato in un brutto processo per violenza sessuale in aula), Mahmoudi ha anche nettamente ed espressamente escluso che il delitto avesse qualcosa a che vedere con motivi religiosi.

No, lui ha ucciso don Roberto perché convinto che il religioso che lo aveva aiutato, gli aveva teso la mano più di una volta, lo aveva sfamato, gli aveva fornito vestiti, facesse parte «di un complotto» per farlo tornare in Tunisia. Lo ha ripetuto più volte, questo passaggio, davanti allo sguardo attonito di poliziotti e avvocato.

E per dar forza alla sua convinzione, che vedeva coinvolti nel complotto non solo don Roberto ma anche - e soprattutto - il prefetto di Como, i suoi attuali avvocati, i giudici, i medici che hanno periziato per conto della giustizia che la sua malattia agli occhi non sarebbe affatto incompatibile con l’espulsione dall’Italia, ha pure presentato documenti, lettere, dossier e memoriali inviati a chiunque: dall’ambasciata tunisina alle autorità italiane.

Il coltello

Di più. Mahmoudi era anche convinto di essere seguito e controllato. Per questo motivo lo scorso mese di giugno ha comprato il coltello poi usato per uccidere don Roberto: «L’ho preso per proteggermi, perché mi seguono dappertutto» ha spiegato agli investigatori.

Domani Mahmoudi sarà interrogato anche dal giudice delle indagini preliminari, nell’udienza di convalida dell’arresto. Fino ad allora resterà in isolamento nel carcere del Bassone, dove i detenuti di ogni credo e ogni nazionalità conoscevano e volevano bene a don Roberto.n 
P.Mor.

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