«Io dal Coronavirus sto guarendo
Alla gente dico: c’è speranza»

La testimonianza di una donna milanese. «A casa in quarantena, sto bene. Il vero problema? La spesa a domicilio».

Il suo problema principale ora è la spesa. «Le consegne a domicilio dell’Esselunga a me più vicina sono prenotate sino a domenica prossima. Morirei di fame, ma fortuna che qui in paese c’è un negozietto, i titolari mi lasciano le borse coi prodotti sul ballatoio». Come si vive da reclusi per Coronavirus, lei ha deciso di spiegarlo mettendoci la faccia: sui giornali, sui siti, in tv dalla D’Urso, e non per farsi pubblicità speculando sull’infezione più temuta del momento. Morena Colombi di Truccazzano (Milano), operaia 59enne in una azienda di cosmetici, vorrebbe «far capire alla gente di non farsi prendere dal panico, perché tutto ’sto cinema è un delirio: dal Coronavirus si guarisce, come sto guarendo io».

I primi sintomi

I primi sintomi li avverte venerdì 14 febbraio: «Brividi di freddo, tosse. Domenica 16 m’è venuta la febbre a 38,5, è l’unico giorno in cui l’ho avuta. Lunedì 17 sono andata dal medico di base per farmi dare i giorni di malattia. Mi ha prescritto una terapia per una normale influenza e anch’io, per la verità, ero convinta di questo. Ma poi mi sono accorta che la tosse secca andava aumentando e che avevo anomali sintomi di stanchezza e dolori alle ossa. Mi si è accesa la lampadina. Ho pensato che sul lavoro avevo avuto contatti con gente che era stata in Cina. “E se è Coronavirus?”, mi sono chiesta».

La donna prova a contattare il 112 come da campagna informativa. Le rispondono dopo che per due giorni - giovedì 20 e venerdì 21 - ha provato vanamente. «Mi prendono i dati e mi dicono che mi avrebbe richiamato un numero del Ministero della Salute. Più sentito nessuno. Sabato 22 ho provato a richiamare il 112, poi mi sono rotta. La tosse cominciava a preoccuparmi, mi toglieva il respiro. Io, poi, in passato avevo già fatto tre polmoniti. Temevo di averne presa un’altra. Così ho chiamato l’ospedale Sacco di Milano dove ero stata in cura. Mi hanno consigliato di presentarmi in un pronto soccorso». La signora sceglie quello di Treviglio, «ospedale dove in passato mi ero trovata molto bene». Ci arriva alle 19 di domenica 23 e l’impatto stavolta non è dei più morbidi. «Il personale si è arrabbiato - racconta -. Mi hanno ripresa, dicendomi che dovevo chiamare il 112. “È due giorni che lo chiamo!”, ho risposto seccata. Ma poi dico che potevo aver avuto contatti con persone di rientro dalla Cina e da lì si sono preoccupati pure loro».

Morena viene ricoverata «in un ufficetto in disuso, con una lettiga dove dormire e una “padella” per fare i bisogni. Con me non c’erano altri pazienti. Non potevo uscire. Infermieri e dottori sono stati gentilissimi, venivano ogni due ore a controllarmi, con guanti e mascherine. Hanno fatto il possibile. Una dottoressa mi ha spiegato che mi avevano sistemato lì perché per raggiungere le stanze disponibili avrei dovuto transitare da altri reparti col rischio di contagiare pazienti e personale».

La sottopongono a tampone, i cui risultati arrivano nella notte di lunedì 24: positiva. Alle 6,30 di martedì 25 la trasferiscono nel reparto infettivi del Papa Giovanni. «Dove sono rimasta sino alla mattina di mercoledì 26. Mi hanno fatto una radiografia ai polmoni e non sono risultata in pericolo di vita. Così mi hanno dimesso, raccomandandomi di non uscire di casa per 15 giorni. Non mi hanno detto di tornare per visite di controllo».

«Non ho terapie da seguire»

Ora sta nel suo appartamento: «Non ho terapie da seguire, devo prendere la tachipirina se mi torna la febbre. Sto bene, mi devo controllare da sola e, se fossi senza scrupoli, potrei uscire tranquillamente. Non ho febbre e la polmonite prima o poi se ne andrà per i fatti suoi. Quando sono tornata a casa, mi sono collegata a Facebook e ho capito che a Truccazzano ero al centro di un delirio collettivo. Chi diceva che mi aveva vista in ambulatorio e temeva di essere stato contagiato, chi scriveva che potevo almeno avvisare. Ma come? Se non lo sapevo neppure io di essere infetta. Così ho deciso di uscire allo scoperto per dire che il virus non è mortale e che forse mi ha aggredito perché, per via delle tre polmoniti precedenti, le mie vie respiratorie sono un po’ deboli. È assurdo vedere gli scaffali dei supermercati presi d’assalto o le persone, quelle sane intendo, barricate in casa».

È dal 17 febbraio che non mette il naso fuori da un ospedale o dal suo appartamento. «Non vedo l’ora di uscire. E sono curiosa di capire come reagirà la gente. Spero che non si faccia prendere dal panico incontrandomi. Se fossi stata così contagiosa non credo che un ospedale serio come quello di Bergamo mi avrebbe dimessa a cuor leggero. Se, invece, vedendomi, le persone scapperanno, vorrà dire che almeno non farò la coda in posta o in banca», sorride lei.

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