«Io, soccorritrice, porto via i malati
Quanta angoscia tra i loro familiari»

Il racconto di Federica, dipendente della Croce rossa: «Entriamo nelle case dei pazienti e troviamo tante persone spaventate. Capita che qualcuno ci chieda: “Lo rivedremo mai più?”»

Una mano avvolta da un guanto di lattice che stringe quella di un anziano. Nell’iconografia del soccorso il volontario è un uomo o una donna che sanno trasmetterti quel calore umano indispensabile in un momento difficile. «Purtroppo da quando la nostra attività, sulle ambulanze, è principalmente il soccorso a sospetti pazienti con il coronavirus, è cambiato tutto quanto».

Federica Frate, dall’inizio dell’anno, è diventata a tutti gli effetti una soccorritrice assunta dalla Croce Rossa di Cantù. «I miei amici, ora, mi dicono che ho scelto proprio il momento ideale per trasformare questa missione in una professione» prova a sdrammatizzare Federica. Ma dal tono della voce, traspare la fatica emotiva per queste settimane drammatiche.

«Tutta la situazione generale è surreale - ammette - Fino a un mese fa entravamo nelle case delle persone che avevano bisogno di soccorso, e la prima cosa che facevamo era quella di provare a fare un gesto rassicurante, consolatorio verso il paziente. Ora è più difficile essere rassicuranti. Le persone ci vedono arrivare tutti bardati, con addosso i dispositivi di protezione, e questo non può che spaventarli più di quanto già non lo siano».

Anche tra i soccorritori stessi è cambiato molto: «Abbiamo meno volontari. Non per paura, ma alcuni avevano situazioni familiari per cui era meglio se stessero a casa, e siamo stati noi stessi i primi a suggerire di non venire in associazione».

Ormai da tre settimane le ambulanze delle associazioni di soccorso stanno dedicando quasi tutti gli interventi al trasporto di pazienti con sospetto Covid: «Questo significa che indossiamo per tutto il tempo le tute bianche antivirus, le mascherine, gli occhiali, i guanti» spiega Federica Frate. Per limitare i rischi di contagio e per risparmiare sui presidi di autoprotezione, ora sulle ambulanze i soccorritori sono generalmente solo due, contro i tre da tradizione.

«Quando arriviamo a casa dei pazienti - prosegue la soccorritrice della Croce Rossa – vediamo le persone che si affacciano alle finestre preoccupate». I soccorritori non sono più visti come i possibili salvatori, ma come portatori di tragiche novelle: «È tutto fortemente stressante. Tutti adesso hanno paura. Tutti sono in ansia. Il rapporto con pazienti è cambiato molto. Sono spaventati, anche se molto consapevoli, ma ora è più difficile dare quel conforto e quella umanità che prima caratterizzava il servizio. L’atmosfera è inevitabilmente più asettica». Eppure si fa quel che si può, con gli sguardi da sopra le mascherine o con qualche frase pescata dal cuore: «Tentiamo di rincuorare e confortare il più possibile, ma in alcuni casi i sintomi sono così evidenti che noi stessi facciamo fatica a trovare le parole. Dopotutto parliamo di una patologia nuova, di cui non conosciamo il decorso, quindi non sappiamo dare quelle indicazioni precise alle famiglie che prima era più facile poter fornire. Ci dobbiamo limitare a dire ai parenti: “non potete venire in ospedale, dovete restare a casa”. E ai pazienti raccomandiamo: “portate il cellulare, è il solo modo che avete per sentirvi”. È capitato, con alcuni anziani, che per giorni le loro famiglie non abbiano avuto notizie. È davvero frustrante».

E proprio il rapporto con le famiglie, il momento in cui si esce di casa con la barella, è forse l’aspetto peggiore di questo periodo folle: «Si capisce che i famigliari sono preoccupati. Qualcuno ci chiede: “lo vedrò mai più”... E noi, come se non bastasse, siamo anche costretti a comunicare a chi viveva con il paziente che in quel momento è in quarantena e quindi non deve avere contatti con l’esterno. Sempre, quando andiamo via, rimane il pensiero» e resta il ricodo «dell’angoscia negli occhi dei parenti».

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