La dura vita dei sindaci in trincea
A difendersi dal coronavirus (e dai social)

Sono gli ultimi anelli della catena politica, ma gli unici a essere sempre in prima fila.Cercando di trovare risposte ai quesiti dei cittadini impauriti. Compresi quelli più stravaganti

È un mestiere difficile, ammettiamolo. In un Paese come il nostro, dove sembrano esserci più amministratori che amministrati, la figura del sindaco resta un punto fermo. Forse l’unica certezza di una politica dove chiunque abbia un qualsiasi ruolo, persino il più insignificante, ritiene di essere nelle condizioni di dettare regole e ammonimenti, in una sovrapposizione tragicamente comica di ordinanze, decreti, inviti, comunicati e compagnia bella che si contraddicono l’un l’altra generando quella confusione istituzionale che, così ad occhio, dev’essere alla base dell’italica arte dell’arrangiarsi.

Di questi tempi, poi, fare il sindaco è come stare in trincea, rimpiangendo persino quelle domeniche buttate per partecipare al torneo di briscola, che se per caso non ti fai vedere hai già perso cinquanta voti senza neanche accorgetene.

Si scherza, vivaddio, ma neanche poi tanto. Altro che l’intimo godimento della fascia tricolore da sfoggiare nel salotto buono della prefettura il 2 di giugno. Non bastassero i questuanti del sabato – ai tempi della mia gioventù si usava così – adesso ci sono i rompiscatole h24 del web che ti scrivono, ti implorano, ti chiedono, ti sfidano e ti insultano. E tu lì, a spiegare, a giustificare, a trovare sempre una buona ragione per non rispondergli con la massima wildiana secondo la quale con gli idioti non bisogna mai discutere. Soprattutto con quelli che imperversano sui social.

C’è il cittadino-elettore che vuole sapere se può andare a portare il cane a far pipì, quello che cerca la mescita di vini sfusi (giuro, l’ho letto),quello che la sua piscina era ghiacciata e come faccio a far venire l’assistenza, quello che la sua gatta (autentico pure questo) mangia un cibo particolare e quindi deve necessariamente uscire dal Comune “per ragioni di salute” (della micia). E quello che ti ringrazia per l’ultimo comunicato, quello che ti insulta per l’ultimo comunicato e vivaddio, c’è pure qualche parente, che ti benedice a prescindere da quello che hai scritto.

E il sindaco sta lì, nella ridotta del municipio, a pigiare sui tasti, a cercare di spiegare che la buca della via privata magari non è la priorità del momento, a giustificarsi per la lampadina bruciata, a cercare argomenti convincenti per dire che non può essere colpa del Comune se internet si è piantato nel bel mezzo del solitario on line, ad ammonire il cittadino che ti linka il video del vicino sorpreso a svoltare furtivamente l’angolo. E il passo carraio ostruito, il tombino maleodorante, la mia vicina che fa rumore ascoltando la musica e quella che invece non fa più rumore e quasi quasi mi vien da chiamare i pompieri, lei che dice sindaco, chiamo?

Le fake che corrono

Insomma, un calvario. Che, ai tempi del coronavirus, si moltiplica negli effetti. Ciascuno, chissà perché, ha una domanda alla quale non trova spiegazione sui mille siti internet seri (non i gruppi facebook, sia chiaro), ciascuno ha un complotto giudaico massonico per cui se non dai notizia di un caso di positività – vero o presunto,non è mica importante, me l’ha massaggiato l’amica della suocera di mia zia che l’ha saputo dal fratello – stai attentando alla salute pubblica. E se invece ne dai notizia, stai scatenando il panico. E mica si fanno quelle cose lì.

Sia chiaro, ci sono sindaci e sindaci. Quelli che sono arrivati lì perché cresciuti a pane e politica, e quelli che non voleva farlo nessuno, quelli che ci credono davvero e quelli che, invece, si sono sempre fermati alla libidine dell’io-so-il sindaco e voi… beh, il marchese del grillo l’avete visto pure voi. Sarà che nella redazione di un giornale l’osservatorio è privilegiato, sarà che il contatto è così stretto e continuo da poter notare vizi pubblici e private virtù, sarà che il giornalista – a prescindere – è sempre visto come una sorta di avversario da guardare con sospetto perché di sicuro sta sempre dalla parte dell’opposizione e poco importa che dicevi il contrario quanto stavi all’opposizione. Ma il pout pourri che viene offerto ai nostri occhi è davvero variegato.

Ai tempi del coronavirus, tutto si amplifica, si deforma e, forse, si chiarisce. All’inizio dell’epidemia, quando a far notizia non erano i morti ma solo i rari casi di positività, bastava una domanda per scatenare l’inferno. Uno di loro, non appena partì il calvario del virus, telefonava a casa del “positivo” per invitarlo a non parlare con il giornalista de “La Provincia”. E intanto scriveva al giornale, su carta intestata, alternando paroloni, minacce e fantomatiche cause per procurato allarme. Che a leggerle, adesso, quelle parole fanno scompisciare dalle risate se non ci fosse quello che c’è.  C’è stato quello, litigioso persino con il vocabolario, che al telefono non riusciva a mettere insieme un concetto senza infarcirlo di bestemmie assortite.

Ma anche in quei primi giorni, ci sono stati sindaci che hanno scelto altre strade. Quella della trasparenza, spiegando ai cittadini che il problema c’era e che si stava affrontando, perché il valore di un’amministrazione – per quanto dura a capirlo – non si misura con il termometro (ops) dei casi risultati positivi. C’è poi il sindaco con gli attributi – quasi sempre donna, chissà perché – che anticipa i provvedimenti, che chiude i mercati prima che arrivino il Conte e il Fontana di turno, che spiega ai giornalisti (e cioè ai suoi cittadini, per quanti possano essere pochi quelli che preferiscono una mediazione professionale al caciarame telematico) il perché e il per come, che pubblica il modulo dell’autocertificazione o un più normale video di incoraggiamento. L’esatto contrario del sindaco incazzoso che – nel bel mezzo di una pandemia, vien  quasi voglia di additarlo al pubblico ludibrio – non trova di meglio che ammettere che sì, gli uffici sono chiusi perché un dipendente è venuto a contatto con un contagiato ma che “diffido a pubblicare” la notizia. O quell’altro che contesta i dati arrivati dall’Ats: quel morto non è di coronavirus, stava già male prima. Verrebbe da diffidarlo dal fare il sindaco, ma tant’è.

E, ancora, c’è il sindaco tecnologico che sui social fa la contabilità quotidiana, quello che riempie il sito istituzionale di video manco fosse il Borrelli della Protezione civile diventato l’incubo e la star delle 6 del pomeriggio e quello che sta delle belle mezzore – così ad occhio – a parlare con i suoi cittadini, compresi quelli delle domande idiote. E quello che “insomma, il mio collega è finito sul giornale cinque volte con 3 fotografie e io manco una, anche se ho più abitanti di lui, ci deve essere del marcio a Camerlata”.

I “grandi” politici

Al di là di ogni battuta, di ogni polemica, la realtà è che – alla fine – c’è sempre un sindaco sul quale contare nel momento del bisogno. Chi più e chi meno. No, non sono eroi moderni, e ci mancherebbe altro. Ma nell’ardita e sovradimensionata architettura istituzionale che ci siamo dati – e che i politici hanno poi moltiplicato, perché un posto vale uno stipendio e spesso lauto – sono gli unici che restano al pian terreno, rinchiusi nella portineria della Repubblica. Mentre ai piani di sopra, nella maggior parte dei casi, trascorrono il tempo a farsi i selfie, a riempire instagram di storie e a mettere firme inutili su disegni di legge che nessuno leggerà mai, a dire che bisogna riaprire tutto e subito dopo a contorcersi dallo sdegno perché bisogna chiudere tutto. Concedendo, di tanto in tanto, una bella pacca sulle spalle a quel portiere del condominio che sta lì con la scopa in mano- qualcuno anche materialmente, a inscatolare mascherine o sanificare strade - in cambio di una fascia tricolore e di una manciata di erotomani social che, non trovando nulla di meglio per cui rompere le scatole, chiedono dove possono trovare la farina 00 o come possono fare a riscuotere la vincita di 13-euro-13 del Lotto. Un suggerimento ce l’avrebbero pure da dare, ma mica lo si può confessare.

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