Lo studio boccia i numeri ufficiali
«In provincia 18mila positivi»

Nuove stime sulle reali dimensioni dell’epidemia - L’ultima arriva dall’Istituto di politica internazionale

Como

Potrebbero essere circa 18mila i contagiati dal Coronavirus in Provincia di Como. La cifra è contenuta nell’ultima pubblicazione dell’Istituto per gli studi di politica internazionale di Milano (Ispi), a cura di Matteo Villa. Nel suo ultimo lavoro, pubblicato nel weekend di Pasqua, il ricercatore stima quanto sia presente il Covid-19 in Germania, Francia, Spagna, Regno Unito, Stati Uniti, Cina e Italia, con un focus specifico sulla Lombardia. Per il Lario, la percentuale di diffusione sarebbe del tre per cento della popolazione, che potrebbe oscillare fra il due e il sette, arrivando quindi a toccare, nel peggiore dei casi, quota 42mila comaschi.

Da quando è cominciata l’epidemia, quindi, avrebbero contratto il virus in forma più o meno grave (compresi gli asintomatici), nove volte tanto il numero di positivi accertati, a oggi sopra i duemila.

È la conferma di come i conteggi ufficiali sottostimino la diffusione, in gergo “prevalenza”, dell’epidemia.

Questo, ovviamente, vale per la nostra provincia, una fra le meno colpite della Lombardia, e per tutti i territori. In termini di percentuale, meglio di noi sta solo Varese, unica in regione ad avere una prevalenza di Covid-19 inferiore alla media nazionale, 1,6 per cento contro 2,4. Tra i valori più alti, invece, le province di Bergamo e Lodi avrebbero (o avrebbero avuto) un numero totale di persone contagiate di poco inferiore al 20 per cento dei loro abitanti, seguite da Cremona (17), Brescia (12) e Pavia (9).

Il calcolo parte dal tasso di letalità plausibile del virus in Italia, stimabile attorno all’1,2 (molto diverso quindi da quello fatto registrare oggi con i casi conosciuti), con la variazione in funzione delle classi di età. Ma, una diffusione così imponente in Lombardia potrebbe avere alcuni risvolti non tragici nel futuro. «La probabile forte prevalenza del virus in questi territori – scrive Villa - significherebbe che tra alcune settimane, una volta guarita la maggior parte delle persone, il virus troverebbe più ostacoli e la sua diffusione rallenterebbe. In questo senso, la tragica avanzata dell’epidemia nelle zone più colpite d’Italia porterebbe oggi a individuare proprio nei cittadini di quelle zone i candidati ideali per i primi test di sieroprevalenza». Quel piccolo esercito di lavoratori, si spera immuni, sarebbe, infatti, molto probabilmente più grande che altrove, e le persone immunizzate sarebbero più facili da trovare, massimizzando il valore di ogni singolo test. Ciò, secondo lo studio, non significa che si potrebbe ripartire come se niente fosse. «Una forte prevalenza locale può rallentare il virus solo se si riducono notevolmente i contatti tra zone diverse del paese – specifica il ricercatore - e soprattutto se le persone sane di una provincia non ne escono, magari proprio per lavoro: se un bergamasco non ancora immune lavora a Milano, non potrà godere della “protezione” fornitagli dall’alto numero di persone guarite e immunizzate che abitano e lavorano nella sua provincia. Inoltre anche le persone immuni potrebbero diffondere il virus per contatto. Occorrerebbe dunque molta prudenza, ma sarebbe di certo un passo avanti rispetto a un momento in cui l’intera popolazione corre il rischio di ammalarsi».

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