Oggi infermiere, nel ’92 cameraman
«Ho girato io le immagini a Capaci»

Lavora al Sant’Anna. «Ero l’operatore della tv locale e arrivai per primo. Ecco cosa vidi». Quei filmati trasmessi in tutto il mondo. «In Sicilia omicidi ogni giorno. Via D’Amelio? Uno choc»

Ventotto anni dopo, il ricordo resta «struggente e doloroso».

Esattamente come la sera di quel 23 maggio 1992, quando Massimiliano si lascia cadere sul letto, esausto, e quasi non vuole andare al telefono nonostante il padre gli stia dicendo: «C’è Emilio Fede in linea, vuole farti i complimenti per le immagini!»

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Massimiliano Messina, oggi infermiere dell’ospedale Sant’Anna, casa a Como, quelle immagini le aveva girate nel pomeriggio, poco dopo le 18, sull’autostrada sventrata dal tritolo della mafia. Lì dove avevano perso la vita il giudice Giovanni Falcone, sua moglie e tre agenti della scorta. Faceva il cameraman per la tv locale Retesei, e proprio a quella emittente si appoggiava Mediaset per ottenere e ritrasmettere in tutta Italia le notizie siciliane.

«Non ho mai raccontato pubblicamente queste vicende e dopo i primi anni non ho più partecipato alle commemorazioni, nemmeno in via D’Amelio. Sì, perché anche lì, dove venne ucciso Paolo Borsellino, io c’ero, con la telecamera». Testimone di fatti tragici entrati nei libri di storia, con l’incoscienza di un venticinquenne desideroso di arrivare sul posto prima degli altri, anche a costo di sfrecciare a velocità folli, sulle strade di Sicilia. «Ero stato scelto con una selezione per occuparmi di cronaca nera, anche se poi facevo un po’ di tutto, funziona così nelle piccole emittenti. Anni incredibili, anche per chi come me è originario di Alcamo, al confine con Castelvetrano, e quindi la mafia l’ha sempre respirata. Perché la mafia si sentiva, eccome. La guerra tra le famiglie mafiose lasciava sul campo i morti a decine. Un omicidio al giorno era la norma, capitò anche di arrivare sul luogo di un agguato e trovare i cadaveri di persone che conoscevo bene, con il volto sfigurato. Bravi ragazzi all’apparenza, ma in realtà killer di Cosa Nostra pronti a rischiare la vita. Quando ci sei dentro, e cresci in quel contesto, ti sembra quasi la normalità, anche se di normale non c’è niente».

https://www.laprovinciadicomo.it/videos/video/la-strage-di-capaci_1046273_44/

L’omicidio di Giovanni Falcone e ancor più quello di Paolo Borsellino «non stupirono», racconta Messina. «Borsellino, come noto, si definì “un morto che cammina”. Lo ricordo bene, seguivamo tutte le sue conferenze stampa, se non c’erano i giornalisti locali non iniziava a parlare. Quei giudici erano la nostra speranza».

Quel giorno di fuoco

Il racconto del 23 maggio parte dalle 18.10, la strage si è consumata da pochi minuti. «Avevo il cercapersone, il capo mi comunica la tragica notizia. Ero con la mia ragazza, il tempo di salutarla e mi precipito a prendere la telecamera. Salto in macchina con due colleghi e a tutta velocità, sulla Lancia Thema messa a disposizione da Mediaset, imbocchiamo l’autostrada A29. Ad un tratto una macchina ci taglia la strada e ci si mette davanti bloccandoci, per poco non ci schiantiamo... Nemmeno il tempo di capire e mi ritrovo con un mitra puntato alla testa. “Vieni fuori”, gridavano. Erano i caschi neri. Per fortuna vedendo l’attrezzatura capirono che eravamo della televisione e ci lasciarono andare».

Lo scenario che i tre colleghi si trovano davanti, pochi minuti dopo, va oltre l’immaginabile: «Conoscevamo bene l’autostrada, ci passavamo spesso, ma era diventato un altro luogo. Sembrava aperta campagna, c’erano pietre e terra. Lasciamo l’auto e percorriamo un tratto a piedi, saranno stati 400 metri. C’è un cordone di carabinieri a bloccare il passaggio, al di là le auto che fumavano. Uno scenario irreale. Do uno spintone a un giovane carabiniere, e me ne scuso ancora oggi, e in qualche modo riesco a passare. Per la prima volta in vita mia, fatti due passi, penso di perdere i sensi. Mi tremano le gambe. Piango. Riprendo e piango».

Quelle immagini sono finite in tutto il mondo e ancora oggi vengono trasmesse. Perché Massimiliano fu il primo operatore ad arrivare sul luogo della strage. «La Rai partiva da Palermo e trovò la strada interrotta , noi venendo da Trapani invece no. L’elicottero che sorvola la zona, la polizia... Sono tutte immagini mie. E avrei potuto fare di meglio, chissà. Ricordo la gente che gridava e piangeva, per terra, come se gli avessero ucciso un figlio. Perché Falcone rappresentava il futuro, la vita, in un contesto fatto di violenza e di omertà. Era come stare sotto una cappa, la mafia comandava e lo si avvertiva chiaramente».

Ad un tratto, sfinito, cede la telecamera a uno dei collaboratori e viene immortalato in una foto che tutti noi abbiamo visto chissà quante volte, la trovate in questa pagina: la persona che guarda dentro uno dei veicoli della scorta è proprio Massimiliano.

«L’auto guidata da Falcone aveva la parte posteriore quasi integra, ad essere investita in pieno fu una delle auto della scorta, catapultata a centinaia di metri. Tanto che Falcone era vivo quando venne soccorso, riuscii a vedere da lontano un’ambulanza che partiva e a bordo c’era proprio il giudice».

Da Capaci la troupe torna in redazione, ancora senza parole. Si spediscono le immagini a Roma, da lì approderanno a Milano e, pochi minuti dopo, appariranno sugli schermi dei televisori di tutto il mondo. La sera, a casa di Massimiliano, la telefonata di Emilio Fede: l’unica nota lieta.

Tragedie e rinascite

«Via D’Amelio? Sì, 53 giorni dopo c’ero, sul posto. Ci arrivai in auto con la fidanzata, per fare più in fretta. Lei subì un forte choc e non parlò per giorni. Vide il cadavere di Emanuela Loi, agente della scorta, scaraventato su un albero. Resti umani a terra. No, non vado oltre. Ma ricordo la rabbia delle persone, se a Capaci era a livello 80, in via D’Amelio era oltre 100. Una rabbia che si manifestò poi ai funerali, in modo eclatante».

L’avventura professionale di Massimiliano, in quegli anni di sangue, è fatta anche del racconto di tanti altri omicidi. «Non era facile, soprattutto all’inizio. Venivamo minacciati. Non si passava certo inosservati con quella pesante telecamera, la batteria a spalla, i cavi, le luci e tutto il resto. Capitava di arrivare sul posto prima ancora delle forze dell’ordine, perché erano gli stessi mafiosi a fare telefonate anonime in redazione per avvisare dell’omicidio. Trovavamo l’auto con i fari ancora accesi e all’interno i corpi crivellati...».

Lasciata la tv, Massimiliano decide di diventare infermiere, anche in seguito a un gravissimo lutto in famiglia. «Un altro lavoro che mi permette di stare vicino alle persone. Non racconto più le loro vite, ma provo a farle star meglio. Avevo vinto un concorso in Piemonte, poi ho scelto Como perché la città mi piace. Qui ho trovato anche l’amore». (Michele Sada)

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