Prevenzione e panico
Quel filo sottile

GL’ediuai confondere la prevenzione con il panico. I provvedimenti drastici e sicuramente clamorosi presi ieri in tutta la Lombardia, con la chiusura di scuole, chiese, cinema, teatri, oratori, pub, centri sportivi e con lo stop a tutte le manifestazioni pubbliche - o addirittura private, se prevedono la presenza di molte persone - hanno ovviamente creato preoccupazione. Ma, di fronte a una emergenza - sia essa reale ed effettiva o solo potenziale - è indispensabile fermarsi, spegnere le inutili chat di whatsapp usate per seminare panico e analizzare i fatti con grande serenità.

Magari affidandosi alla voce degli esperti, più che all’ululato dei complottisti e dei pessimisti per partito preso.

E allora giova pubblicare la riflessione postata su facebook da Maria Rita Gismondo, virologa dell’ospedale Sacco, in prima linea in questi giorni nell’analisi dei tamponi provenienti da tutta la Lombardia: «Si è scambiata un’infezione appena più seria di un’influenza per una pandemia letale. Non è così. Guardate i numeri. Questa follia farà molto male, soprattutto dal punto di vista economico». E ancora: «Leggete! Non è pandemia!Durante la scorsa settimana la mortalità per influenza è stata di 217 decessi al giorno! Per Coronavirus 1!!!». Ovviamente questi interventi hanno scatenato gli esperti di virologia social, gli stessi che conoscono tutto anche della Costituzione, di come si pilotano gli aerei, di quali sono le norme internazionali sulle migrazioni, del funzionamento della Borsa, delle operazioni a cuore aperto e, chiaramente, di come si allena la Nazionale di calcio.

Si obietterà: e allora c’era davvero bisogno di chiudere le attività di un’intera regione? La risposta è: sì, c’era bisogno. Proprio per evitare che questa “influenza” si trasformi in qualcosa di più grave. Non già sul fronte dei pericoli per la vita delle persone (il tasso di mortalità è molto sovrastimato, visto che il numero di morti è certo, ma quello dei contagiati effettivi non lo è e, sicuramente, è decisamente più alto di quello ufficiale), ma per il rischio di far collassare il sistema sanitario. Tradotto: nel Lodigiano sono bastati i primi dieci casi per causare la chiusura di un ospedale. E mettere fuori servizio decine di infermieri e di medici. Se questo dovesse ripetersi in altre realtà, è chiaro che il rischio di disservizi sarebbe molto alto. Quindi meglio fermare la diffusione fin da subito, riducendo l’esposizione e, di conseguenza, il rischio di contagio.

Una cosa è certa. Quanto sta accadendo è un banco di prova importante. Un banco di prova per il sistema sanitario e per le istituzioni di fronte a un cosiddetto “evento maggiore”; un banco di prova per le nostre abitudini, per verificare se e come cambieranno in futuro; un banco di prova per noi cittadini, per testare il nostro grado di responsabilità e di capacità nell’affrontare con maturità una situazione sconosciuta e inedita. Sul primo punto e sul secondo punto è necessario attendere gli eventi, per avere una risposta. Anche se è molto probabile che quanto sta avvenendo comporterà degli aggiustamenti, quantomeno sulle abitudini dei professionisti della sanità (ad esempio su un uso più assiduo delle mascherine).

Sul terzo punto, purtroppo, gli esordi non sono incoraggianti: le scene di assalto ai supermercati, con scaffali svuotati e carrelli riempiti modello “fine del mondo”, per non parlare degli allarmi lanciati addirittura sul 112 per la presenza di gruppi di cittadini cinesi in giro per la città.

Da oggi e per un po’ la nostra vita cambia. Ma questo non autorizza nessuna inutile psicosi.

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