Ridha e il suo odio per gli avvocati
Le prime minacce già 12 anni fa

Nel 2008 tormentava una avvocatessa per il pignoramento della sua abitazione. Voleva denaro: «Prepara i soldi o scateno l’inferno»

Minacce e ricatti sembrerebbero una costante nella vita di Ridha Mahmoudi, 53 anni, il cittadino tunisino in carcere dall’alba di martedì con l’accusa di avere ucciso il parroco di San Rocco Roberto Malgesini.

Non passa giorno senza che dal suo passato riemergano storie tra loro parecchio simili, legate soprattutto ai suoi rapporti difficili con le aule di giustizia. Nel 2008 fu una avvocatessa comasca a rivolgersi alle forze di polizia per chiedere protezione, temendo seriamente per la propria incolumità.

Mesi di terrore

Per mesi l’avvocatessa visse nel terrore di Ridha che in quel periodo usciva da un processo per violenza e maltrattamenti nei confronti dell’ex moglie e che all’avvocatessa si era rivolto per resistere al pignoramento di un piccolo appartamento di cui all’epoca era proprietario. La casa sarebbe andata all’asta, ma lui non voleva rassegnarsi, né valse spiegargli che per evitare avrebbe dovuto pagare i suoi debiti.

Ridha, stante il racconto dell’avvocatessa, prese a minacciarla come qualche anno dopo fece con un altro avvocato che lo assistette davanti ai giudici di pace nelle varie impugnazioni dei decreti di espulsione che di volta in volta la questura emetteva nei suoi confronti. Prese a ricattarla, dicendo che avrebbe raccontato in giro d’essere stato costretto a darle delle somme di denaro in nero, e quando lei lo esortò a fare ciò che voleva, anche a rivolgersi alla guardia di finanza, lui si impuntò: «Sei tu - le disse - il mio avvocato a vita».

L’insistenza, la prepotenza, l’invadenza erano le stesse che Ridha avrebbe reiterato poi con i professionisti che sarebbero venuti dopo, al punto che in un paio di occasioni i carabinieri dovettero intervenire per portarlo via a forza da uno studio legale nel quale si era “stabilito” con l’intenzione di restarci fintanto che non gli fosse stato consegnato un permesso di soggiorno al quale, tra l’altro, non aveva diritto. Già allora, con quella avvocatessa, si intravedevano i tratti ossessivi che nel tempo avrebbero contribuito al precipitare degli eventi.

Le telefonava e le diceva: «Prepara i soldi o scatenerò l’inferno. Sarà una tragedia» Minacciava di presentarsi con non meglio precisati suoi “fratelli”, sostenendo che con loro la vendetta si sarebbe compiuta.

Sapeva che in polizia non avrebbero potuto fargli nulla, senz’altro non arrestarlo per le “sole” minacce. A La Provincia l’avvocato raccontò di non poterne più: «Me lo vedo arrivare in studio - raccontò - Urla come un forsennato, non teme niente e nessuno, neppure le forze dell’ordine. Mi sono rivolta alla questura, mi sono rivolta agli ufficiali di polizia giudiziaria in Tribunale: non c’è niente da fare, mi rispondono. L’avevo assistito quando era finito in carcere per una vecchia pendenza, l’avevo fatto scarcerare e da allora l’avevo seguito per altre pratiche. Gli ho suggerito di andarsene da un altro avvocato, mi ha risposto che sarebbe toccato a lui decidere, perché lui è un uomo, io una donna».

No al giudice donna

La misoginia di Mahmoudi è riemersa proprio l’altro giorno, di fronte al gip del tribunale di Como Laura De Gregorio. L’omicida reo confesso di don Roberto (che ha poi ritrattato tutto) ha detto che non avrebbe parlato con un giudice donna. E alla fine dell’interrogatorio si è anche rifiutato di firmare il verbale.
S. Fer.

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