Un principe dell’inganno: la storia del finto erede del negus d’Etiopia che gabbò gli svizzeri (e non solo)

Il caso In Ticino l’esito di un processo che sembra un film. La cronaca di un clamoroso raggiro a cavallo del confine sulle orme del tesoro miliardario dell’ex impero etiope

Con una condanna a sei anni di detenzione si è concluso in questi giorni a Lugano un processo che avrebbe meritato ben altra eco, un po’ per il nome dell’imputato un po’ per le dimensioni del raggiro che la procura ticinese gli contestava, sullo sfondo di una complicata trama internazionale tessuta tra Roma, Londra, la Svizzera e l’Etiopia.

L’imputato sbandiera un nome importante. Dice di chiamarsi Aklile Berhan Makonnen Hailé Selassie e di essere nipote proprio di “quel” Hailé Selassie, vale a dire del negus d’Etiopia, morto - da ultimo imperatore - nel lontano 1974. «Nessun denaro potrà restituirmi la dignità che mi ha insegnato mio nonno», ha lamentato dopo la lettura della sentenza, ma la sua vera identità rimane un mistero anche per i giudici luganesi, costretti a convenire che sul punto l’inchiesta non ha fatto sufficiente chiarezza.

Le figlie principesse

In Italia si è letto, scritto e sentito un po’ di tutto. Padre di tre bellezze in concorso al Grande fratello vip edizione 2021 (una delle sorelle, la principessa Jessica Hailé Selassié, aveva già partecipato anche a Riccanza, altro programma tv di un certo livello, esibendo la disponibilità di autisti, maggiordomi e attici a piazza di Spagna), il buon Aklile Berhan potrebbe chiamarsi in realtà Giulio Bissiri, ed essere figlio non s’è ben capito se di un giardiniere a servizio del negus o del solito stalliere, figura ben più nobile e comunque immancabile a corte, un po’ come il salame nelle vignette di Jacovitti. Ad Addis Abeba, dove è nato nel 1956, Giulio avrebbe trascorso un’infanzia felicissima, ben voluto da tutta la corte e dagli eredi al trono, al punto da convincerli a sostenerlo nel progetto di mettere le mani sull’immenso e molto presunto patrimonio dell’imperatore, riuscendo infine a vestire i panni del terzo in linea dinastica alla successione al trono.

Erano i primi anni Duemila e fu più o meno allora che ebbe inizio la storia dei bond del negus, una quantità inaudita di quattrini – circa 178 miliardi di dollari americani – custoditi sotto forma di buoni del tesoro dalla Bundesbank tedesca e pronti a essere “scongelati” se solo un pretendente legittimo si fosse fatto avanti con le carte in regola.

A leggere il capo di imputazione svizzero – firmato dal ministero pubblico Chiara Borelli - di carta se n’è macinata da sradicare la foresta nera: certificati, autodichiarazioni, mail, “affidavit”, raccomandate e triccheballacche per 14 anni di fandonie, dal 2007 al 2021, grazie alle quali Hailé Selassie Bissiri sarebbe riuscito a raggirare tre imprenditori svizzeri, tra i quali il celeberrimo titolare di un marchio molto noto anche da questa parte del confine. Ai tre, stante la sentenza della corte delle “assisi criminali” di Lugano, il nostro avrebbe sottratto la bellezza di 12 milioni 824.448 franchi e 16 centesimi, sempre sventolando sotto il naso dei suoi ignari finanziatori la titolarità di quei 178 miliardi di dollari che la Bundesbank non si decideva a liberare.

La Fondazione a Chiasso

Il capo di imputazione è zeppo di dettagli interessanti: vi si legge che tutto ebbe inizio con uno scritto datato ottobre 2000 (posticcio?) con cui la banca di stato tedesca certificava di avere ricevuto da parte del governo etiope un atto di rinuncia ai titoli, e che pertanto il 10% del gruzzolo avrebbe potuto essere sbloccato subito, a beneficio di uno o più eredi del negus. Non fu solo un raggiro documentale: Hailé Selassie alias Giulio Bissiri convinse il primo dei suoi benefattori a investire anche nel luminoso futuro della “sua” Etiopia facendogli costituire a Chiasso una fondazione ad hoc e portandoselo avanti e indietro dal Corno d’Africa con l’obiettivo di coinvolgerlo «emotivamente» – dice sempre il tribunale – in un progetto che in realtà non avrebbe mai raggiunto nessuno dei suoi nobilissimi scopi umanitari.

Dal 2009 in poi, restando al contenuto delle carte processuali, è tutto un crescendo di scuse e di panzane, che però fruttano soldi a palate: gli svizzeri versano fino all’ultimo centesimo quello che il presunto Hailé Selassie va pretendendo per la causa legale che dovrebbe portare allo sblocco del tesoro. Sotto la sua sapiente regia, complicazioni e colpi di scena si susseguono. Prima, nel 2010, il nostro racconta che il governo etiope ha rinunciato alla... rinuncia chiedendo di poter rientrare in possesso dei titoli, poi, dal 2011 prende a snocciolare una sfilza di impedimenti che non fanno che complicare la causa in corso innalzando paurosamente, “ca va sans dire”, le spese legali: fantomatiche pretese di tangenti da parte dei vertici del molto evocativo Monte dei Paschi, traslochi di familiari a Londra dove la vita costa ben più cara che a piazza di Spagna, pendenze fiscali, pignoramenti di Equitalia, ingerenze di fantomatici ministeri, e avvocati americani, e un oscuro politico etiope a tanto così dal cantarsela con la stampa internazionale. Insomma: i bonifici non bastano mai, e i tre svizzeri ottemperano senza fare una piega, ché quei 178 miliardi sono un boccone troppo ghiotto per pensare di tirarsi indietro.

Le “vittime” italiane

Mica sono gli unici, peraltro: in Italia Bissiri avrebbe convinto altri facoltosi amici, tutti analogamente alleggeriti, tra i quali il presidente della compagnia di assicurazioni navali Ital Brokers di Genova, l’ex ad delle Generali Giovanni Perissinotto, e l’ex amministratore di Holiday Inn, l’avvocato Roberto Tedeschi, la cui figlia ebbe poi modo di raccontare di come alla morte del padre, grazie ai “prestiti” garantiti al presunto negus, la famiglia fosse finita sul lastrico.

Le illusioni, le ultime, cadranno nel 2021, con l’arresto di Hailé Selassie junior in Lussemburgo e con l’avvio della indagine penale, preludio della sentenza della scorsa settimana.

«Mi scuso se il mio agire ha causato danni a questi signori», ha commentato il figlio del giardiniere (o dello stalliere), che non ha mai smesso di protestarsi innocente, né di sostenere d’essere nipote dell’imperatore. Anzi: «Principe si nasce e principe si muore», ha detto ai giudici citando Totò. Il quale, travestito da ambasciatore del Katongo (ricordate “Totò truffa”?), avrebbe senz’altro sorriso.

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