C’è un altra verità
nel caso Weinstein

Ogni tanto femminismo fa rima con cialtronismo. Troppo occupati a discettare sul coronavirus - ormai se non lo infili pure nelle istruzioni per la pulizia del carburatore del Garelli sei un fallito - ci siamo persi una chicca che la dice lunga sui danni devastanti del conformismo politicamente corretto.

Nei giorni scorsi il New York Times ha pubblicato un durissimo editoriale contro Ronan Farrow, giornalista premio Pulitzer, figlio di Woody Allen e Mia Farrow, e soprattutto eroe senza macchia e senza paura del movimento #metoo. In sintesi, il più importante quotidiano del mondo, che pure sostenne con vigore le campagna contro il maschilismo nel mondo dello spettacolo, ha fatto a pezzi l’impianto della mirabolante inchiesta giudiziaria di Farrow, che ha portato all’arresto del produttore cinematografico Harvey Weinstein e alla rovina professionale di decine di artisti, tra i quali basti ricordare Kevin Spacey, Geoffrey Rush, Placido Domingo, paradossalmente lo stesso Woody Allen e, per stare alle faccende di casa nostra, Fausto Brizzi. Secondo il New York Times, quello di Farrow non è tanto giornalismo d’inchiesta, ma soprattutto narrazione immaginifica, nella quale vengono omessi fatti complessi e dettagli sconvenienti, che incrinerebbero la perfetta divisione del mondo tra bianco e nero, tra buoni e cattivi, tra vittime e carnefici, un trionfo non della verità, ma del verosimile, senza riscontri seri, senza basi certe, senza prove provate, senza verifiche attente, soprattutto su alcune delle principali accusatrici di Weinstein. Insomma, un racconto senza giornalismo.

La polemica infuria. Il New Yorker, la rivista che ha ospitato l’inchiesta di Farrow, ha già contestato l’analisi del New York Times, ma al di là delle miserie del giornalismo dorato d’oltreoceano, così simili a quelle del giornalismo spaghettaro italiano, il dato significativo è un altro. Già dai suoi esordi, tutto il caso Weinstein tanfava di granaglie rancide e, soprattutto, di spot ideologico, di conformismo acritico e apodittico e di deriva sessista e iconoclasta. Tutto troppo facile, tutto troppo simile a una sceneggiatura hollywoodiana, appunto, tutto troppo romanzesco, con quei ruoli ben definiti una volta per tutte: gli orchi usi a predare a ogni ora del giorno e della notte, le donne ingenue e indifese che nulla potevano contro tali prevaricazioni, il giornalista incorruttibile che, lancia in resta, entra nelle segrete stanze e ne svela il marciume dimostrando che tutti gli uomini di potere sono dei farabutti violentatori e tutte le donne delle vittime in cerca di riscatto, la giustizia vendicatrice spazzacorrotti che mette le basi per il migliore dei mondi possibili. Quello governato da sole donne. Bello, vero? Quando si gira il primo ciak?

Ora, nessuno vuole negare il maschilismo e il sessismo che imperano in quasi tutti i posti di lavoro - fatevi un giro nelle redazioni dei giornali e poi vedrete… - e più i posti sono importanti, più vige la legge della giungla. E nessuno vuole negare che in quei corridoi si aggirino maschi laidi e schifosi - Weinstein è stato condannato per due stupri - che fanno valere in quel modo il proprio potere, il proprio ruolo, la propria influenza. Questo è un malcostume antico come il mondo. Ma saremmo infantili e addirittura ridicoli se non sapessimo - e invece lo sappiamo - che ci sono donne che queste scorciatoie le hanno praticate e le praticano e le praticheranno alla grande, passando davanti ad altre donne più capaci e professionalmente meritevoli, ma non sessualmente disponibili. Il potere è il demonio e non serve aver letto Macbeth per capirlo. Dove c’è il potere, c’è sempre un uomo - non tutti, ma tanti - pronto a leccare le scarpe al capo. Dove c’è il potere, c’è sempre una donna - non tutte, ma tante - pronta a saltargli dentro il letto. Chi lo nega è un fariseo.

Ma la cosa davvero fondamentale non è nemmeno questa. Il dato decisivo è che, comunque la si pensi, in una società liberale esiste l’onere della prova e il principio inviolabile che qualsiasi accusa deve essere dimostrata in un dibattimento tra pari. Se la prova non ce l’hai, le tue accuse, per quanto nobili, non valgono niente. E molte di quelle fatte a Weinstein o ad altri vip erano del tutto sprovviste di prove. Eppure bastavano. Si sono visti settantenni messi sotto accusa per ipotetici fatti risalenti agli anni del liceo, si sono viste persone esibite alla pubblica gogna per un tweet di un’attricetta senza arte né parte né riscontri oggettivi, si sono visti tutti i trucchi del cosiddetto “giornalismo della resistenza” - la resistenza a Trump, ovviamente, che se c’è un cattivo a prescindere è giusto quello – capace di piegare la realtà ai propri desideri, i fatti alla propria battaglia ideologica, i dati alla propria teoria cospirativa, un giornalismo partigiano che lavora soltanto a tesi e che ha creato una vera e propria caccia alle streghe di puro stampo maccartista che vede nel maschio bianco di potere il male a prescindere, così come una volta il nero, l’ebreo, il gay. E si può ben capire che se si prende questa china, poi si finisce in Bulgaria.

E spiace davvero che, all’epoca dei fatti, siano state così poche le donne ad aver messo un punto fermo sulla questione - una cosa sono i sacrosanti diritti di parità tra donne e uomini, una cosa sono le falsificazioni della realtà - mentre la maggior parte ha preferito farsi trascinare in una crociata che le ha viste comportarsi esattamente come i maschi da loro tanto odiati. C’è chi ci prova e c’è chi dice no. C’è chi abusa del suo potere e chi lo denuncia con tanto di prove alla mano. C’è chi è disposto a tutto per la propria carriera e chi a niente. Non è questione di genere. E’ questione di individui. La prima la fanno i pecoroni che si sentono protetti dal branco, la seconda gli uomini (e le donne) liberi che vogliono essere artefici del proprio destino. La prossima volta le nostre femministe si scelgano paladini migliori.

© RIPRODUZIONE RISERVATA