Euro-dollaro: gli effetti nelle tasche dei cittadini

Uno vale uno. Non è lo slogan del Movimento Cinque Stelle ma, approssimativamente, il rapporto di cambio fra l’euro e il dollaro. Nei suoi ormai 23 anni di vita, perché bisogna contare dalle fissazione delle parità del 1999 e non dall’introduzione dell’euro fisico, la nostra moneta ha conosciuto alti e bassi rispetto a quella americana. Quando nacque, un euro comperava 1,16 dollari. Poi ci fu un deprezzamento fino a ottobre 2000 quando un euro valeva solo 0,85 dollari. Da lì partì la rivalutazione che culminò nel luglio del 2008 a 1,58 dollari per un euro. Dopo alterni andamenti, il rapporto si è mosso fra il 2015 e il 2022 in un canale compreso fra 1,05 e 1,20. Il valore odierno non è quindi un record negativo ma la soglia psicologica della parità è comunque importante, anche perché viene da un trend di discesa che è incominciato a gennaio 2021 quando il cambio si muoveva intorno a 1,21.

La domanda se in questi ultimi trimestri si è rivalutato il dollaro o si è svalutato l’euro, può sembrare oziosa quanto il dubbio se sia nato prima l’uovo o la gallina. Ma, proprio come quest’ultimo quesito, ha una risposta netta: è l’euro che perde terreno, e infatti si osserva una dinamica simile, anche se su scala diversa, con altre due divise importanti come il franco svizzero e la sterlina inglese. La divisa di Sua Maestà, poi, sembra molto meno colpita dalle conseguenze della Brexit che in tanti paventavano come disastrosa.

Perché questa svalutazione, non drammatica ma comunque significativa? Concentriamoci sul dollaro, il termine di confronto più significativo in termini di potenziale produttivo, di presenza sui mercati mondiali e quindi di potenziale export. Con una sintesi un po’ riduttiva, come peraltro tutte le sintesi, si potrebbe dire che l’America è un po’ più avanti noi nel sentiero della lotta all’inflazione, che è emersa prima ed è stata affrontata in modo molto più deciso. La Fed ha aumentato i tassi di interesse prima e più della Bce e quindi ha dato l’impressione di poter invertire la tendenza dei prezzi prima dell’Europa.

Ma non è tutto qui; ci sono anche differenze strutturali e contingenti. L’America è un sistema molto più flessibile del nostro, quindi l’aggiustamento dei prezzi, compresi gli stipendi, avviene in modo più rapido, rendendo più efficace l’azione della politica monetaria. L’America è sostanzialmente autosufficiente in termini energetici e risente molto meno dell’aumento del costo del gas e delle altre materie prime. E qui si innesta l’elemento contingente: l’America è più lontana dalla guerra in Ucraina e sembra quasi indenne dai suoi effetti sulla scarsità di gas e di cibo. Dunque, combattere l’inflazione sul territorio americano è più agevole che nel continente europeo. Ecco perché sui mercati è preferita la valuta statunitense: offre rendimenti più altri e promette di svalutarsi di meno nel tempo.

C’è qualcosa di più che potremmo fare per evitare l’arretramento della nostra divisa? Temo di no. Gli elementi strutturali e congiunturali di cui ho detto non sono modificabili nel breve e forse neanche nel medio lungo periodo. La Bce usa gli strumenti tradizionali della lotta all’inflazione contro una dinamica che in larga parte le sfugge, perché dominata dai prezzi dell’energia e del cibo. L’unica magra consolazione è che il cambio debole favorisce le nostre esportazioni, ma non è la domanda a mancare in questo momento. Dall’altro lato, il deprezzamento dell’euro rende ancora più costosi gli acquisti per i consumatori, vere vittime insieme ai risparmiatori della complessa situazione attuale. Sarebbe bello sapere cosa hanno in mente i partiti per proteggere gli uni e gli altri.

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