I confini della satira
E quelli della libertà

Nella repubblica delle banane lo specialista dell’indignazione è quasi sempre un gran trombone.

Ve li ricordate tutti i pretoriani della libertà, della democrazia e, soprattutto, della sacralità della libera espressione, del libero diritto di critica, del libero diritto di satira appena dopo la strage di “Charlie Hebdo”? Tutti a ululare, tutti a pontificare, tutti a salmodiare e a discettare e ad ammonire che guai a chi osasse toccare l’inviolabile diritto a esprimere la propria opinione e a mordere alle caviglie il potere, i suoi pretoriani e i suoi servi ed era tutto un citare - dopo un robusto passaggio su Wikipedia… - Voltaire di qua e Voltaire di là e “non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo” e nessuno si azzardi a sindacare i vignettisti che disegnano quello che vogliono, anche se insultano la religione nostra e quella altrui, anche se sfornano vignette empie e rivoltanti, piene di sesso, preti, papi e imam, anche se ridono dei morti e sghignazzano sulle vittime dei terremoti e tutto quanto di più disturbante ci possa venire in mente e bla bla bla?

Ve li ricordate quando andavano tutti in corteo, i nostri statisti, i nostri opinionisti, tutti in piazza, tutti in gruppo con i loro ditini, le loro matitine, le loro bandierine a ribadire che non può esistere alcuna censura e che non esiste alcun argomento che non possa essere trattato, che non esiste alcuna idea o commento o critica che possa essere insabbiata, soffocata, inibita e stroncata, tanto meno con la violenza?

Bene, a parte il fatto che a sorpresa era stato addirittura il Papa a mettere in dubbio queste granitiche certezze - “se parli male della mia mamma ti do un pugno”, però questo è un argomento che ci porterebbe lontano - è bastata una vignetta sgradevole quanto volete, ma che in confronto a quelle pubblicate contro l’Islam dai disegnatori francesi sembra un pastello da scuole elementari, per scatenare, dalla premier a l’ultimo dei peones, dai direttori dei giornali all’ultimo degli scribacchini, a destra come a sinistra passando per l’inutile centro, una canea censoria da anni Cinquanta, quando appunto il malcapitato Guareschi era finito in galera per una vignetta su Einaudi.

La questione è nota. Giovedì scorso “Il Fatto Quotidiano” ha pubblicato una striscia che rappresenta la sorella della Meloni, e moglie del ministro Lollobrigida, a letto con un nero mentre dice: “Tranquillo, sta tutto il giorno fuori a combattere la sostituzione etnica”.

Il giudizio se faccia ridere o meno, se sia divertente oppure offensiva è un fatto personale che riguarda ognuno di noi. Ognuno darà un giudizio, che è legittimo e rispettabile, quale che sia. Il punto però qui è un altro. Il punto, centrale in una società, una politica e un giornalismo liberali, è dove vadano posti i confini della critica, della satira e, in questo caso specifico, delle vignette. E questo non può essere altro che uno: il codice penale. Tutto il resto è e deve essere legittimo. E guai se non lo fosse. Anche se fossimo di fronte a un’opinione sgradevole, orribile, offensiva e irritante. E se è così, e non può che essere così, dov’è la parte diffamatoria di quel disegno? L’adulterio è penalmente perseguibile? L’adulterio con un uomo di colore è ancora più penalmente perseguibile? L’irrisione di un ministro che parla in pubblico di sostituzione etnica infiocchettandogli un contrappasso cornificatorio è penalmente perseguibile? Criticare violentemente politici di primo piano e personaggi pubblici è penalmente perseguibile? Indicate gli articoli del codice penale che puniscono tutte queste fattispecie di reato, per cortesia?

Ma la vignetta incriminata è volgare. Certo che lo è. Ma la volgarità è reato? E la maleducazione, la velenosità, la maldicenza, il sarcasmo, la causticità, l’irrisione sono reati? L’iperbole, il paradosso, l’esagerazione sono reati? Ma la vignetta è anche inopportuna. Certo che lo è. Ma l’inopportunità è un reato? E poi, e qui siamo al nodo della questione - perché sia chiaro che del “Fatto”, della Meloni, della Schlein, del ministro e di tutta la compagnia cantante a chi scrive questo pezzo non importa un bel niente, mentre importa moltissimo della libertà di espressione - chi decide cosa è opportuno e cosa no? Cosa è pubblicabile oppure no? Cosa è concesso oppure no? Chi scolpisce le tavole della legge? Le sorelle Meloni di concerto con i loro mariti e cognati, forse? Il Gran Sinedrio dei Moralisti d’Italia con il ditino alzato? I trombonauti da terrazza del Pd, che già ai tempi di simpatia D’Alema spedivano querele a raffica a mezza Italia? L’Ordine dei giornalisti e i probiviri e i tutori della moralità pubblica dell’Informazione Perbenista Collettiva Antifandonia? De Amicis, Carducci, l’Istituto Luce e Carlo Codega? L’assemblea dei reduci di Amba Alagi unitamente a quelli di Curtatone e Montanara, i bersaglieri a riposo, le dame di carità, l’associazione Vedove Cattoliche, il Mago Otelma, il sodalizio dei giocatori di bocce di Ambivere Mapello o il Circolo del Bar della Pesa?

I formidabili statisti che oggi si scandalizzano per il nero nel letto della Meloni e che però davano dell’orango a un ministro della Repubblica o quelli che si indignano per la mancanza di rispetto per le donne e che però dicevano che la ministra Fornero bisognava andare a prenderla sotto casa e darle una lezione? Ma davvero?

In una democrazia liberale tutto quello che non è diffamatorio è pubblicabile e se è diffamatorio ci penseranno i magistrati a valutarlo ed eventualmente a sanzionarlo. Punto. E a pensare a cosa pubblicava “Il Male”, a cosa pubblicava “Cuore”, a cosa pubblicava il Forattini degli anni d’oro e, ripetiamolo, a cosa pubblica - in certi casi davvero di abominevole – “Charlie Hebdo” abbiamo la prova plastica dello stato comatoso della cosiddetta politica, tutta, e della cosiddetta informazione.

La vignetta del “Fatto”, forse, fa schifo. Ma grazie al cielo è stata pubblicata.

© RIPRODUZIONE RISERVATA