Il genio di Villaggio
abbattè il Muro

Paolo Villaggio era un grande cultore della letteratura russa. In particolare di Dostoevskij. In particolare, di “Memorie del sottosuolo” e di “Delitto e castigo”. Anche se, ripensando al meglio della sua opera televisiva, cinematografica e narrativa - perché, tra le altre cose, scriveva come un semidio - il rapporto di parentela che viene più immediato è quello con Cechov e Gogol.

Ed è stato proprio l’attore genovese, di cui in questi giorni cade il terzo anniversario della morte, a confessarlo nel 2012, quando venne insignito del premo Gogol in Italia, in quanto autore italiano più letto in Russia. In quella sede gli venne naturale mettere in comparazione il suo comico e tragico Fantozzi, una delle maschere assolute della nostra cultura popolare, con quella di Akakij Akakievic, il protagonista de “Il cappotto”, uno dei racconti più celebri di Gogol, appunto, e che si impernia sulla metafora ridicola e sanguinosa del sottomesso, del perdente, del fallito, del capro espiatorio. Una delle pietre fondanti di qualsiasi cultura è la distinzione tra servi e padroni, tra vincenti e sconfitti, e quella condizione di umiliazione non solo economica e sociale, ma soprattutto psicologica e antropologica, del proletariato russo è un vero e proprio topos di quel mondo, che ha dato vita alla letteratura probabilmente più profonda dell’intera storia della cultura mondiale. E la stessa cosa, naturalmente utilizzando i parametri, i criteri e le sensibilità tipiche della nostra repubblica delle banane, ha fatto Villaggio con Fantozzi, che appartiene alla stessa schiera degli umiliati di Akakievic.

Solo uno sciocco può valutare Villaggio come mero autore comico e i suoi film come geniali contenitori di gag, di certo irresistibili, ma soltanto gag. Villaggio era un vero intellettuale, nel senso più profondo del termine, e quindi diverso e opposto rispetto alla tipica mezza calzetta di mezza intelligenza e di mezza cultura che ammorba i premi letterari, le sceneggiature dei film e delle serie televisive e che passa le giornate a lisciare il pelo ai pupazzi del regime del conformismo della culturetta progressista farisea, filistea e tartufesca. Se pensiamo che i suoi grandi film - i primi due Fantozzi sono dei capolavori, tutti gli altri, come confessò lui stesso, erano solo rimasticature grazie alle quali poté permettersi di vivere alla grande - sono stati realizzati nella metà degli anni Settanta e se pensiamo cos’era l’Italia e che cos’era la cultura dominante di quell’epoca capiamo davvero a pieno la portata rivoluzionaria dell’opera di Villaggio. Che grazie a quel personaggio letterario se ce n’è uno, spazza via tutta la retorica bolsa e strabolsa, cotta e stracotta, del popolo coraggioso e integro e puro e cristallino ed eroico e, naturalmente, antifascista che viene umiliato e offeso dal padronato sfruttatore, estorsore, eversore e vessatore e che però, nonostante tutto, combatte e soffre e non si piega grazie all’orgoglio di stare dalla parte del giusto, del bene, del sol dell’avvenire e tutto il resto delle fregnacce che gli zerbini della cosiddetta intellettualità organica ci hanno fatto trangugiare a ettolitri con i loro film didascalici, i loro romanzi didascalici, i loro programmi didascalici, le loro riviste didascaliche.

E invece non era vero niente. Non era vero affatto che il popolo fosse migliore del padrone, perché il padrone fa certamente schifo ed è ignorante e arrogante e cafone e spietato - le figure dei vari megadirettori generali, naturali e laterali sono quanto di più spassoso e ignobile si possa immaginare - ma fa schifo anche il popolo. E sapete perché? Perché i padroni e il popolo fanno schifo in quanto esseri umani. Perché sono gli esseri umani - tutti - in quanto esseri umani a fare schifo. E qui, forse, siamo vicini addirittura a Céline... Il popolo è servo e servile e vigliacco e lazzarone e fanfarone e cialtrone, sempre pronto a leccare i piedi al Duca Conte Catellani (quello della partita a stecca), alla Contessa Serbelloni Mazzanti Vien Dal Mare (quella del varo della motonave), al Duca Conte Semenzara (quello del viaggio al Casinò), al Professor Guidobaldo Maria Riccardelli (quello del cineforum) e a scaricare a sua volta tutte le sue frustrazioni, i suoi livori, la sua ira repressa da borghese piccolo piccolo su quei rari soggetti più deboli di lui, la moglie Pina e la mostruosa figlia Mariangela, prime fra tutti. Una vera merdaccia, il popolo…

Ne veniva fuori un ritratto di italiano - e di essere umano - che faceva a pugni con le retoriche dei registi di partito, quelli scarsi ovviamente - Petri e Scola sono stati invece maestri assoluti del cinema militante - e con quelle degli scrittori alla Moravia, perché dimostrava in modo incontrovertibile che quell’italiano lì, ideato a tavolino nelle scuole del partito in realtà non esisteva, era una finzione, un sofisma, una sovrastruttura che non intaccava per nulla la natura profonda e inesorabilmente dorotea dell’italiano medio basso. Vi ricordate forse un’altra operazione così anticonformista?

Lo dimostra un aneddoto legato alla più celebre fra le tante battute fantozziane diventate gergo comune - nessuno, neanche Sordi, neanche Nanni Moretti, ha coniato così tante espressioni entrate nei vocabolari della lingua italiana - e cioè “La corazzata Potemkin è una cagata pazzesca!”. A un festival del cinema a Mosca, nella sala Lenin, alla presenza di 12mila persone, venne proiettata prima “La Corazzata Potemkin” e poi “Il secondo tragico Fantozzi” e alla famosa scena ci fu un applauso da esplosione nucleare: era la liberazione, finalmente, da un’oppressione che i poveri russi avevano subìto da parte del regime comunista e che lui aveva subìto da parte di quello culturale, quando da ragazzo sfigato andava ogni sabato sera a vedere un cineforum sui film sovietici assieme a De Andrè. È bastata una battuta per far cadere il muro di Berlino - e quello di Cinecittà - ma nessuno se ne è accorto.

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