Il vangelo concreto
di un vero cristiano

Si fa presto a puntare il dito, a giudicare come “ingratitudine” un momento, probabilmente di follia, che ha armato la mano di uno dei tanti “poveri” che Don Roberto, il prete degli “ultimi” ha aiutato, soccorso, fatto diventare parte della sua famiglia allargata. Il coltello ha infierito, non si conoscono i motivi del perché quella mano abbia voluto colpire, fino ad uccidere il prete buono che girava per la nostra città, con la sua Panda grigia, per portare pasti caldi, per condividere e lenire la sofferenza.

E’ ingiusto, nei confronti stessi di Don Roberto, giudicare la sua morte in termini di polemica politica, come si è tentati di fare, in una superficiale e approssimativa reazione emotiva all’accaduto. Stare con “gli ultimi” della nostra società, con coloro che vivono la privazione e il bisogno è stata la missione di questo prete, di origini valtellinesi, che messo al primo posto del suo operato, soprattutto il valore e il segno della carità, vissuta come se fosse la realtà più intima e naturale in cui lui potesse vivere insieme ai suoi poveri. E’ quella “carità” di cui parla San Paolo nella “Prima lettera ai Corinti”, che riletta in questa occasione, diventa un segno per capire Don Roberto, la sua opera e il suo martirio, al di là di qualsiasi commento sociologico: “La carità non invidia, non si vanta,/ non si gonfia, non manca di rispetto,/ non cerca il proprio interesse, non si adira, / non tiene conto del male ricevuto, / ma si compiace della verità”.

La verità di Don Roberto sta nella sua dedizione a chi non ha niente, a coloro che sono dimenticati dalla vita, dalla storia, i “senzapatria” perché non hanno più una terra che li vuole ospitare e sono costretti a percorrere le strade delle nostre città, non considerati come “fratelli”, ma come “fantasmi” e in quanto tale da considerare senza diritti. Don Roberto ha riconosciuto la loro umanità, li ha guardati in faccia, ha visto le loro lacrime, i loro dolori, ha sentito le loro rabbie, ma non si è mai sottratto al fatto di stare loro vicino. E tutti, coloro ai quali ha voluto bene ora lo piangono, sanno di aver perso un padre, un fratello, un amico, un prete buono che sapeva portare la luce del conforto, quando altrimenti per loro ci sarebbe stato solo il buio e la disperazione.

Più che puntare il dito su chi ha mosso la mano assassina (non capita solo ai clandestini, tanto che la cronaca in queste settimane ha mostrato come la violenza si annidi, profonda, dura, violenta e spietata, anche in contesti fuori dalla clandestinità, in situazioni al limite, ma che provengono da realtà tutta italiane), è necessario far sì che il sacrificio, chiamiamolo anche “martirio”, com’è giusto nella tradizione cristiana, di Don Roberto diventi un segno, un monito che possa mettere in luce il valore di chi lavora in silenzio a favore dei diseredati, realtà che sembrano non avere visibilità diretta, che rimangono nell’ombra, ai margini, in una sorta di realtà parallela, rispetto alla normalità delle nostre vite.

Questo mette in evidenza la verità di un’esemplarità cristiana che Don Roberto ha voluto assumere come condizione del suo essere prete, quella di un’imitazione di Cristo non solo a parole, ma nella concretezza della vita quotidiana: rivivere Cristo ogni giorno, come avviene nella Messa, nell’offerta del suo corpo eucaristico, vuol dire anche incontrarlo nelle vite degli uomini che più soffrono le lontananze e gli abbandoni, con tutti i rischi che questo può comportare, vuol dire offrire la propria vita totalmente a Colui in cui si crede, che ha patito, è morto ed è risorto per la salvezza di tutti gli uomini. Questo Don Roberto lo aveva ben presente e lo dimostra la sua opera concreta.

Dalla memoria della sua morte è necessario trarre lezioni di speranza, non di divisione: capire che il vero cristianesimo ci chiama all’azione concreta, indica che è necessario vivere il Vangelo non solo come tradizione culturale, ma come offerta continua dei propri pensieri e delle proprie opere alla memoria di Cristo.

Più che un episodio di cronaca nera, la morte di Don Roberto apre una luce anche nelle nostre coscienze, ci richiama a non voltare la faccia, a vincere l’indifferenza, a far sì che la Carità diventi di nuovo una delle forze che muovono la nostra vita. Ci invita a ripensare alla nostra radice cristiana in termini radicali, ponendo Cristo e i suoi insegnamenti al centro e soprattutto ci indica una via attraverso le beatitudini che Gesù ha pronunciato nel “Discorso della Montagna”, beatitudini che erano ben presenti nella vita e nell’opera di Don Roberto e ne hanno determinato la forza e l’esemplarità: “Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio”.

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