In Emilia il tramonto
della Terza Repubblica

Qui si tratta di mettersi d’accordo. Ha vinto Bonaccini o ha perso Salvini? La differenza è tutt’altro che sottile nella lettura di questo voto in Emilia Romagna che in un giorno ha ribaltato la gran parte dei sondaggi che vedevano Lucia Borgonzoni primeggiare o, al limite, un testa a testa. Perché se il merito del successo è solo del presidente uscente della Regione rouge, se è stata premiata la storiella del buon governo, al capataz della Lega può pure dire bene. Alla fine ha contribuito alla conquista della Calabria e con il ko emiliano romagnolo c’entra fino a un certo punto.

Di fronte a una valutazione sulla gestione di una Regione che cosa poteva opporre? La lettura opposta, invece, inguaia non poco Matteo. Perché è stato lui a mettere da parte la candidata presidente del centrodestra e occupare tutta la scena della campagna elettorale fino al brutto episodio del citofono che - ci sarebbe da augurarselo perché, sottolineiamolo, la politica è altro - potrebbe aver pesato sull’esito finale.

E allora viene in mente la faccenda della spallata, che in politica è importante. Ricordate Craxi che si rievoca in questi giorni nel ventennale della morte? Uno che aveva due spalle da combattente e voleva usarle per abbattere il Pci e assumere la leadership della sinistra. Non ce la fece perché gli elettori non lo premiarono, sterzò sul Caf con Andreotti e Forlani e avviò il suo declino.

L’hanno già fatto tutti, ma è obbligato il passaggio per l’altro Matteo, Renzi, il convitato di pietra di queste elezioni – ne riparleremo – che la spallata voleva darla al suo partito e al sistema con il referendum che si era intestato e che gli cadde sulla testa. Dov’è il saggio Giorgetti che consigliava a tutti i suoi colleghi di partito di tenere una foto del bullo toscano? Non è che Salvini l’immaginetta l’ha smarrita dopo il trasloco dal ministero dell’Interno?

Perché se così fosse, se Salvini avesse conosciuto la sua prima sconfitta dopo una cavalcata impetuosa e vittoriosa, dovrebbe, come tutti coloro che hanno mancato la spallata, guardarsi - e dove se no? - alle spalle.

Perché il capo, come tutti i capi, diventa intoccabile finché vince e, come la squadra del proverbio, non si cambia. Chiaro che la debacle del Matteo lombardo è altra cosa rispetto a quella dell’omonimo toscano, ma fino a un certo punto. Salvini, infatti, sa far bene, benissimo, una sola cosa: le campagne elettorali. Non ne ha ciccata una, fino a quella dell’Emilia Romagna, a meno che non abbia prevalso il buon governo di Bonaccini. C’è un elemento, però, che nessuno ha evidenziato: l’unico partito che aveva il nome di Bergonzoni nel simbolo era, incredibile, Forza Italia. Che, rinata in Calabria grazie anche al traino della neo presidente Jole Santelli, è evaporata nella terra dei tortellini e della piadina.

Ecco, il problema di Salvini ora è proprio capire cosa vuole diventare da grande. Perché finora, per una cosa o l’altra ha sempre fatto solo campagna elettorale. Anche quando indossava le felpe ministeriali. Un politico deve sapere anche essere altro, altrimenti rischia la fine del centometrista chiamato a correre la maratona. Ce la farà a cambiare pelle e tentare di mutarsi in statista? Lo scopriremo solo vivendo. A questo proposito non ci si può esimere dal citare il caso Bibbiano, dove il Pd ha preso il 40% staccando la Lega. Forse perché la verità su quanto accaduto in quel borgo la sa solo chi l’ha vissuta davvero e non si è fatto fuorviare delle distorsioni strumentali.

La lettura del voto è tutt’altro che secondaria. Anche a proposito del ruolo ricoperto dalle Sardine, determinanti nel riportare al voto chi se n’era allontanato, soprattutto o, forse, soltanto a sinistra. A ribaltare i sondaggi è stata l’affluenza record, quella che faceva sorridere Bonaccini già a metà del pomeriggio di domenica perché sentiva la vittoria in tasca. Le Sardine hanno mandato tanta acqua al Pd di Zingaretti che, non a caso, si è subito precipitato a ringraziarle. Senza di loro oggi sarebbe un leader sconfitto e accerchiato. Invece può lanciare una nuova stagione del Pd che, inutile negarlo, ha tratto solo giovamento dall’addio di Renzi.

Ed eccoci qua. Adesso il Matteo toscano? In queste elezioni non ha voluto toccar palla. Sarà contento o aveva previsto un altro esito più funzionale alle sue manovre? E, soprattutto, cosa farà ora nella maggioranza? Perché se l’astuto Conte era già pronto al ridotto della sconfitta in Emilia, ora dovrà fare i conti con due osti. L’oscurato Renzi e l’evaporato movimento Cinque Stelle a forte rischio diaspora. C’è poi il Pd ringalluzzito ma, si spera, ammantato di senso di responsabilità e consapevole che tocca a lui ora cercare di consolidare l’azione del governo.

Ma anche a destra qualcosa è cambiato. Salvini non è più il dominus assoluto. Dovrà tener conto di Berlusconi che, la Calabria lo dimostra, non muore mai e soprattutto di Giorgia Meloni, unica ad aver guadagnato consensi all’interno dell’alleanza, soprattutto a scapito della Lega.

Con il voto di domenica sembra insomma tramontare la folle Terza Repubblica nata con il risultato elettorale del 2018. Torniamo alla Seconda. E al maggioritario riesumato.

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