La società che si sfalda
trascinata dal nulla

Il panorama editoriale, si sa, è pieno di fuffa, di robaccia, di analfabetismi conclamati e di demagogie straccione. Su questo campo di gioco, il digitale è un po’ come l’Olanda del 1974, la fa da padrone. Ma anche la carta non scherza affatto. E non è di certo il frutto dei pessimi tempi che stiamo vivendo, signora mia, visto che la superficialità fa parte della natura più intima di questo mestiere.

Ed è quindi ancora più doveroso fare una segnalazione ai lettori quando dal quotidiano diluvio fanghiglioso di notizie da niente emerge un’analisi di qualità superiore che non si ferma al mero ambito accademico per scandagliare invece con acutezza i temi pulsanti dell’attualità. Ad esempio, l’ultimo numero della rivista “Il Mulino”, in larga parte dedicato al tema della destra in Italia e in Europa, offre alcuni saggi di notevole valore, tra i quali spicca quello di apertura, firmato dal filosofo Pietro Rossi sul declino del “popolo” e l’avvento della “nuova plebe”. Bene, analizzando il significato storico e sociale di questi due termini e la loro profonda differenza dalla civiltà romana ai giorni nostri, Rossi conclude che la fine del mondo delle ideologie, della saldezza e autorevolezza delle istituzioni e dei corpi di intermediazione ha modificato alla radice il rapporto tra società e individui, che hanno via via perso qualsiasi senso dei doveri per puntare solo su benefici, aiuti e stanziamenti di Stato a favore esclusivo del proprio gruppo di interesse e non dell’intera società. Insomma, dalla sfera dei “diritti” si è passati alla giungla degli “pseudo diritti”.

In fondo, cosa voleva la plebe romana? Voleva spettacoli cruenti, banchetti fastosi, sesso e denaro. Le stesse cose che vuole adesso. Tutto è divertimento e tempo libero, la perdita di identità sociale si è tradotta in un processo di massificazione in chiave edonistica. Con un’ulteriore aggravante. La plebe dell’antichità mirava comunque a far parte dell’organismo politico della città e in qualche occasione ci riusciva pure, basti pensare alla figura dei tribuni della plebe. Quindi tendeva a diventare popolo. A trovare una propria collocazione dentro le istituzioni, a elevarsi, a normalizzarsi. Adesso invece - e la dinamica non è certo solo italiana, ma planetaria - siamo nell’acme del disfacimento del quadro sociale che aveva basato proprio sulla sovranità del popolo le fondamenta della democrazia. Questa è una plebe dalle caratteristiche del tutto nuove, prodotta dalla crisi dello Stato sociale, da quella ancora più grande del mondo sindacale, dall’esplodere di un’infinità caotica di interessi corporativi, tutta tesa a difendere il proprio piccolo misero status quo. Una plebe che, in definitiva, vuole solo divertirsi, perdersi in un mondo di spettacoli, di personaggi da copertina, di giocatori, di cantanti, di showman, di influencer. Oppure, ma pensandoci bene è la stessa identica cosa, di politici improvvisati, politici chiacchieroni, politici cialtroni, gente che non sa niente, non è capace di fare niente, non ha mai fatto niente, non ha mai lavorato in vita sua e che è solo capace di fare promesse risibili (quota cento, reddito di cittadinanza, legge Zan) e lanciare parole d‘ordine (“basta negri!”, “abbiamo sconfitto la povertà!”, “allarme fascismo!”) che una volta al governo non sarà mai in grado di mantenere o che manterrà mandando a picco il bilancio dello Stato o coprendosi di ridicolo.

Una plebe che, paradossalmente, coesiste con lo sviluppo tecnologico, che però subisce in maniera del tutto passiva e senza neppure accorgersene, basti pensare a come venga manovrata in qualità di popolo bue, di parco buoi, di salmerie ottuse dagli over the top digitali. Ed è evidente quanto dentro questo orizzonte esistenziale la scuola e la cultura diventino sempre più marginali a favore invece dell’intrattenimento e di altri - devastanti - canali formativi conformisti. Perché è qui che casca l’asino. La massa dei cittadini è costituita sempre di più da soggetti ignoranti, da fruitori di strumenti e reti di cui nulla sanno e che non sono nemmeno interessati a conoscere. È proprio in questo modo che si innesta una nuova e probabilmente definitiva distinzione tra quelli che sanno le cose, le fanno e programmano il futuro e una sterminata massa di soggetti totalmente inebetiti che esistono solo per riempire passivamente il tempo libero che la stessa evoluzione tecnico scientifica ha prodotto.

La cultura non esiste più. Esiste una pseudo cultura, una cultura plebizzata, farisea, filistea e conformista. E tutta questa gente amorfa e ai limiti dell’analfabetismo funzionale, e spesso ben oltre, gente cioè che non è in grado di comprendere il significato di un testo complesso, gente che legge ma non capisce una mazza di quello che legge, torna utile solo quando la si porta per le orecchie ogni anno a votare, possibilmente per il personaggio più macchiettistico e cabarettistico che offre il panorama politico, per poi venire rispedita a calci nel sedere a nutrirsi del nulla che producono le sue inutili giornate.

È un’analisi molto netta - e se vogliamo anche militante - quella offerta da questo saggio. Ma se si studiano con un minino di visione gli avvenimenti degli ultimi anni -Trump, Brexit, sovranismi, populismi, pandemia dei social, nuovi razzisti, nuove intolleranze eccetera – si coglie perfettamente che il vero buco nero della storia è quello: la perdita di ruolo della borghesia, la frustrazione delle microborghesia, la massificazione, la proletarizzazione e la deculturizzazione di ampissime fasce di ceti medi e medio bassi che hanno perso ogni identità sociale e ogni aspirazione intellettuale e sono pronti a diventare massa di manovra del primo mascalzone che passa. Un fenomeno già visto, in un ambito storico completamente diverso, negli anni Venti e Trenta del secolo scorso. Se ci fosse ancora una scuola - e una famiglia e uno Stato… - varrebbe la pena di farlo studiare ai nostri ragazzi.

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