La vera sfida
è come si ripartirà

Debito, aiuti, garanzie. Tutta la discussione di politica economica è incentrata sul denaro col quale gli Stati dovranno “inondare” l’economia privata. In un articolo sul Financial Times, Mario Draghi ha chiesto con tutta la sua autorevolezza una mobilitazione straordinaria del sistema finanziario. L’attenzione è insomma sul triangolo banche-Stato-banche centrali. L’anello più importante della catena sono in realtà le prime, quelle che devono portare la necessaria liquidità alle aziende.

Perché? La crisi attuale ha dinamiche del tutto inedite. Come crisi economica, non come epidemia. In passato, siamo stati abituati a momenti di raffreddamento del ciclo economico, in alcuni casi a veri e propri crac. Ciò che avveniva, in linea generale, era grosso modo questo. Nel periodo di “vacche grasse”, aumentano gli investimenti, soprattutto in certo settori (tendenzialmente, i più lontani dal consumo immediato), che si rivelano sbagliati poi. Cioè imprenditori e banche immaginavano una prospettiva di crescita della domanda che alla fine non si verifica. Nel tentativo di correggersi, le imprese frenano bruscamente la produzione, con effetti nefasti sul numero degli occupati.

Perché avvengono situazioni di questo tipo? Gli studiosi si dividono sul tema dall’alba della scienza economica. Una ipotesi, che a chi scrive sembra più sensata di altre, è che i segnali di mercato, quei “prezzi” che sono una sorta di semaforo il quale indica continuamente agli imprenditori se è il caso di produrre un certo bene oppure un altro, smettono di funzionare correttamente. Il semaforo è verde anziché giallo. Di solito, a causa di un eccesso di offerta di moneta, che crea una situazione di “esuberanza irrazionale”. Altri, non senza ragione, replicano che se c’è qualcosa che chiamiamo il “ciclo” economico è perché ciclica è la vita: quando appaiono un bene o un servizio nuovo (dal treno a vapore alla rete Internet) noi tutti tendiamo a entusiasmarci e, quando ci entusiasmiamo, facciamo degli acquisti incauti. Lo stesso capita nei mercati finanziari, che scommettono con eccessiva fiducia sulle sorti magnifiche e progressive delle novità. Quando le aspettative sull’impatto di quel nuovo bene o quel nuovo servizio, per quanto straordinario, si fanno più realistiche, arriva la crisi.

La situazione attuale è del tutto diversa, come hanno scritto Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff sul Wall Street Journal. Non ci sono indizi che qualcosa sia andato storto nell’allocazione delle risorse da parte degli imprenditori. Il Covid19 ha portato i governi di quasi tutto il mondo (con qualche, sempre più rara, eccezione: Taiwan, Singapore, la Svezia) a chiudere d’imperio il sistema produttivo. Non hanno sbagliato le banche, non hanno sbagliato le imprese. Per questo va assicurata loro liquidità.

Per quanto tempo? Questa è l’unica domanda rilevante, nel dibattito di oggi. I governi presumono, con informazioni speriamo migliori delle nostre, che la quarantena e la chiusura delle attività continueranno. Ci pare di capire: fino a quando il numero di nuovi contagiati sarà zero o prossimo allo zero.

Ciò che avverrà dopo è la vera sfida. Il Paese dovrà riaprire: ma come? Con quale gradualità? Nessuno ne parla, c’è da sperare che qualcuno ci pensi.

Finché le attività sono chiuse, è difficile calibrare gli strumenti di sostegno. Perché a cambiare sarà, purtroppo, il nostro modo di vivere. Alcuni settori dovranno ripensarsi radicalmente. Chi, prima che arrivi il vaccino, prenderà un mezzo pubblico nel quale è impossibile stare a un metro di distanza? Tutto il trasporto collettivo, dalla metropolitana agli aerei, andrà ripensato in profondità. Come faranno i ristoranti, soprattutto le infinite trattorie in cui si mangia gomito a gomito? Serviranno probabilmente meno tavoli e più fattorini. Sono solo due esempi.

La risposta a queste domande non verrà da nessuna iniezione di liquidità. Avere soldi è meglio che no, ma da soli non bastano ad attivare i neuroni. Di solito ad attivare neuroni serve invece la necessità, il bisogno di fare qualcosa. La risposta può venire solo dal settore privato: dagli imprenditori che ripenseranno la loro attività, dai professionisti che offriranno idee, da una miriade di rivoluzioni quotidiane.

Due sono i problemi. Il primo è che lo Stato queste rivoluzioni quotidiane non è bravo a farle: ma è capacissimo a impedirle, con normative troppo stringenti. Il secondo è che proprio l’inondazione di quattrini può creare la falsa impressione che “tutto andrà bene” anche a prescindere da questo sforzo creativo.

Nelle scienze sociali c’è qualcosa che si chiama “effetto Peltzman”: l’impressione di sicurezza che può dare luogo a comportamenti sperimentati. L’idea venne a un economista, Sam Peltzman, osservando come l’obbligo di portare cinture di sicurezza avesse ridotto la mortalità ma aumentato il numero degli incidenti stradali.

Le persone si sentivano più sicure e, quindi, andavano più forte. Attenzione che i quattrini che pioveranno sull’economia non provochino lo stesso, paradossale effetto.

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