La verità sul Covid non si trova in Procura

Che una Procura mandi un atto di accusa a 19 persone contestando reati quali l’epidemia colposa, il falso e l’omicidio colposo, salvo poi sentir dire dal capo di quella stessa Procura che «noi non accusiamo nessuno», suona di per sé paradossale. Se poi quello stesso procuratore confonde il ruolo del suo ufficio, cioè assicurare che le leggi vengano rispettate, con altro, «soddisfare la sete di verità della popolazione», il paradosso si fa burla. Con buona pace per il buon senso e, ci si potrebbe arrischiare a dire, anche per rispetto ei ruoli di ognuno. La premessa, l’avrete capito, riguarda l’inchiesta della Procura di Bergamo sulla gestione dell’emergenza Covid. Un’indagine conclusa con la contestazione a un ex premier, un ex ministro, un ex assessore regionale, al presidente della Regione e molti altri di essere penalmente responsabili della morte di oltre 4mila persone (alla faccia del «non accusiamo nessuno»). In sintesi: avete tardato a istituire la zona rossa in Val Seriana a fronte di contagi allarmanti, il piano pandemico era vecchio di quasi quindici anni e avete sottovalutato gli allarmi dell’Organizzazione mondiale della sanità, così facendo avete causato la morte di 4148 persone (come si arrivi a quantificare un numero simile, resta un vero mistero).

La prima ondata di Covid, com’è noto, ha causato una strage in provincia di Bergamo. E questo nessuno lo nega. E, si dirà, ovvio che la Procura di quelle zone così martoriate sia giunta a conclusioni differenti da tutto il resto d’Italia, dove le Procura archiviano tutte le indagini sulla pandemia aperte in seguito alla denuncia dei parenti delle vittime. Archiviazioni che si basano sostanzialmente su un dato di fatto incontrovertibile: il Covid è stato un evento eccezionale, imprevedibile nei numeri e nell’andamento, e il virus è stato affrontato senza alcuna certezza scientifica perché la Cina ha nascosto gran parte delle informazioni mediche ed epidemiologiche che avrebbero consentito di prepararsi in modo differente.

Questo significa che tutto ha funzionato bene? Tutt’altro. Proprio su queste colonne abbiamo criticato delibere regionali (come quella che aveva imposto alle case di riposo di far spazio per accogliere i pazienti Covid meno gravi, così finendo per portare il virus nei luoghi più fragili), la mancanza dei presidi di protezione, il fallimento pressoché totale del piano di prevenzione attraverso i tamponi (la nostra inchiesta ha spinto addirittura Ats Insubria a utilizzare denaro pubblico per farci causa, ritenendoci responsabili di una sorta di persecuzione mediatica), l’aver abbandonato centinaia di contagiati al loro destino. Ma da qui a trasformare quegli errori, che ci sono stati, quelle sottovalutazioni, che non sono mancate, e quella confusione in un’accusa penale è tutta un’altra questione. Chi non si dimentica quei giorni, si ricorderà che dagli esperti arrivavano notizie confuse e contraddittorie: è un’influenza, poco di più, è letale, non lascia scampo agli anziani, no colpisce anche gli sportivi, bisogna intubare i pazienti, sbagliatissimo farlo, usate gli antibiotici, ma non servono a nulla.

Il ruolo di una Procura non è quello di «soddisfare la sete di verità della popolazione». E non è quello di contestare il reato di epidemia colposa pur essendo «pienamente consapevoli» che la Cassazione ha già detto che non è configurabile per le “semplici” omissioni (com’è il caso di Bergamo). Né è quello di fornire «uno strumento di grandissima e pacata riflessione». Per dirla con il Codice «il pubblico ministero veglia sulla osservanza delle leggi».

Fornire «un grande spunto di riflessione» sugli errori (che, ripetiamo, ci sono stati) commessi è dovere di altri. È un compito che la Procura non può sottrarre alla politica, alle istituzioni sanitarie e democratiche, agli storici. A ognuno il suo ruolo, anche per evitare di creare false aspettative tra i parenti delle vittime e a 19 persone di difendersi dal nulla.

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