Le pensioni non reggono: ha ragione Macron

Nel mondo all’incontrario nel quale ci tocca vivere, appena un politico prova a comportarsi come uno statista si becca subito del pirla da tutti.

La vicenda del presidente della Repubblica Emmanuel Macron e della sua riforma delle pensioni che da settimane sta scatenando l’inferno in Francia, con proteste, cortei, tafferugli, vere e proprie devastazioni seriali a Parigi e non solo, feriti, fermati e arrestati - siamo tutti in trepidante attesa di vedere quando ci scappa il morto - è davvero paradigmatica dello stato confusionale nel quale si dibatte la politica non solo in Italia, ma soprattutto della crisi profondissima della società occidentale, così grave da farle assumere comportamenti talmente infantili e ottusi da sembrare grotteschi.

Ora, al netto della storia di quella gloriosa nazione che ha la sommossa di piazza tra le sue basi culturali costitutive - la Francia è il paese delle vere rivoluzioni, così come l’Italia è quello delle false rivolte - la questione è molto semplice. I sistemi pensionistici europei non sono più sostenibili, vista la curva demografica micidiale e non invertibile che ogni anno lascia sul mercato del lavoro sempre meno addetti, declino che neanche i flussi migratori riescono a rimpiazzare. Gli occidentali non fanno più figli. E questo non ha una motivazione economica (bassi stipendi, carenza di asili nido e di welfare…), ma eminentemente culturale, legata all’evoluzione (o involuzione?) della società, allo stile di vita, alla centralità del tempo libero, al modello sociale dominante eccetera. Tanto è vero che anche gli immigrati, appena si integrano ed escono dalla dimensione del bisogno perché hanno un lavoro, una famiglia, un’indipendenza, iniziano inesorabilmente a fare meno figli. Queste non sono opinioni, è mera statistica.

Quindi, il progressivo innalzamento dell’età pensionabile è un percorso obbligatorio e la decisione di Macron di portare da 62 anni a 64 la soglia del collocamento a riposo è una misura minima - e di certo temporanea, basti pensare che noi e tanti altri paesi del nord Europa siamo già a 67 - per evitare il fallimento del sistema previdenziale. Perché il sistema fallisce. E’ destinato a fallire. Non può far altro che fallire. Anche perché in Francia ci sono moltissimi regimi pensionistici differenti e alcune categorie, soprattutto quelle legate allo Stato, che, si sa, in Francia è una cosa seria, ma è anche un gran curatore di clientele, godono di garanzie e privilegi inauditi (avete presente i balneari e i taxisti in Italia?) incompatibili con i conti e con l’equità sociale.

Ovvio che quelle fasce protette si ribellino (a chi piace perdere dei soldi?), ovvio che le estreme di Le Pen e Mélenchon aizzino la folla per scopi elettorali - come al solito, alla fine della fiera estrema destra ed estrema sinistra sono la stessa identica cosa -, ovvio che la decretazione d’urgenza del presidente che gli ha fatto scavalcare il parlamento sia una misura sì costituzionale, ma durissima e al limite della provocazione. Ma la cosa più profonda e inquietante è che tanti francesi hanno fatto di quella riforma il feticcio, il monolito, la metafora del loro scontento, delle loro frustrazioni, dei loro livori nei confronti di una società che vedono ingiusta, degli sfregi della globalizzazione, dell’immigrazione, della pandemia, dell’incertezza, della recessione, del sentimento di esclusione rispetto a quelli là, alla casta, al potere. Una sindrome psicologica torbida che disorienta la micro borghesia ed erode dalle fondamenta il sistema liberaldemocratico, mettendo in dubbio il concetto stesso di democrazia delegata e rappresentativa.

Ma mentre chi ha coraggio sfida gli umori salmastri e fanghigliosi della massa, procede con riforme senza le quali ci si avvierebbe allegramente verso la bancarotta, ribadisce che il popolo in tumulto “non è” democrazia - il popolo che vota “è” democrazia - e se ne infischia dei sondaggi e dei talk show e dei garruli opinionisti del mercato rionale digitale, i nostri statisti da quattro soldi, i nostri politici nanoidi, tremebondi e bambineschi da asilo Mariuccia si fanno dare la linea dal primo refolo di Pagnoncelli, dal primo venticello di piazza, dal primo accenno di viralità su Instagram. E inseguono le peggio pulsioni del peggio parco buoi, del peggio radicalismo straccione, demagogico e parolaio che, nella repubblica delle banane, si risolve da duemila anni sempre allo stesso modo: “E lo Stato dov’è?”.

Chi, se non i nostri eroi di destra, di centro e di sinistra, ha annaffiato, vezzeggiato e pasturato in questi tragici anni di mediocrità assoluta la culturetta umidiccia del pensionamento a tutti i costi, del prepensionamento a raffica, l’imperativo categorico della quiescenza, della senescenza, tutta un’ignobile campagna elettorale permanente contro il lavoro, contro il valore del lavoro, contro la sua centralità, la sua nobiltà? Tutti, tutti quanti in mandria e in pieno sincrono a regalare uscite anticipate, a regalare scivoli, a regalare sussidi, a regalare redditi a prescindere, a mandare sulle panchine o davanti ai cantieri gente di cinquant’anni perfettamente abile e arruolata perché il lavoro è male, il lavoro è sporco, il lavoro fa schifo.

E se continuare a fare debito è una cosa grave per la sinistra, che però almeno ce l’ha iscritto nella propria storia, nel proprio codice genetico, è addirittura inaudito per la destra - se la destra fosse una cosa seria e non la barzelletta che è troppo spesso in questo paese (ogni riferimento alle recenti uscite del presidente del Senato è del tutto casuale…) - che invece di parlare a vanvera, a proposito di pensioni anticipate, di conti che tanto salda Pantalone e, soprattutto, di debito non dovrebbe far altro che abbeverarsi all’immortale aforisma di Margaret Thatcher: “Se lo Stato vuole spendere di più è inutile illudersi che qualcun altro pagherà il conto, perché quel qualcun altro sei tu”. Date questa notizia alla Meloni e ai suoi fratelli.

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