Premierato, l’unica riforma con chance

La tragedia della Romagna ha portato in secondo piano il dibattito sulle riforme istituzionali. Ma il tema rimane, non fosse altro per la tenace volontà del premier Giorgia Meloni di mantenere questo impegno preso con gli elettori. Non che questi ultimi, in verità, siano entusiasti dell’argomento che secondo i sondaggi interessa poco e incontra parecchie contrarietà.

Vedremo come andrà, perché sul tema, la cenere sotto il fuoco della maggioranza è ancora calda. E’ noto che infatti, FdI e Lega hanno obiettivi e priorità diverse. Se i primi puntano tutto su presidenzialismo o premierato (cioè l’elezione diretta del capo dello Stato e di quello del governo), i secondi guardano all’autonomia regionale che è uno storico core business del Carroccio. Che le due cose non marcino di pari passo lo dimostra anche il documento elaborato dal Senato in cui i tecnici di palazzo Madama segnalano i rischi di un aumento del divario tra i territori del Nord e quelli del Sud. La misteriosa pubblicazione dell’elaborato ha mandato i leghisti su tutte le furie, con il sospetto che dietro la manina che ha divulgato lo scritto vi sia FdI che, con Ignazio La Russa, esprime il presidente di palazzo Madama.

Ma le riforme hanno un punto debole in comune. Quello per cui nel caso non siano approvate da una maggioranza pari a due terzi del Parlamento possono essere sottoposte a un referendum confermativo. Finora, solo in un caso, quello del titolo V della Costituzione che regola i rapporti tra Stato e Regione, i cittadini hanno acceso il semaforo verde. Anche l’elezione diretta del premier, contenuta nel pacchetto elaborato dal governo di Matteo Renzi, ha già subìto una sonora bocciatura. È chiaro che, quasi sempre, i votanti del referendum rispecchiano quelli delle forze politiche. Per cui anche se si può contare su una maggioranza del 45%, vi sarà sempre un 55 contrario.

Nella questione delle autonomie, poi, gioca anche la territorialità. È difficile non immaginare che un eventuale referendum non passerebbe nelle regioni del Sud e in parte di quelle del centro. Perciò avrebbe poche possibilità di passare. La devolution, proposta dal governo Berlusconi nel 2006, raccolse consensi solo al Nord.

Insomma, la vera partita delle riforme è quella di coagulare attorno a loro il massimo consenso possibile e per farlo bisogna coinvolgere l’opposizione. Questa ragione rende molto problematico il percorso del provvedimento sull’autonomia regionale, al di là del merito. Anche perché, come forse dimostra il blitz della pubblicazione del documento del Senato, nella stessa maggioranza non vi è un consenso granitico. Non va dimenticata la natura centralista e meridionalista dello stesso partito del premier. Appare difficile anche lo “scambio” regionalismo-presidenzialismo, anche perché sarebbe necessario far viaggiare le due riforme su binari paralleli per farli giungere assieme a sintesi. Se si vuole essere realisti, le maggiori chance per un approdo felice sono quelle del premierato. Anche perché va detto, che dopo l’evoluzione (o involuzione) leaderistica delle forze politiche già molti italiani pensano di votare direttamente il presidente del Consiglio, quando invece eleggono solo i componenti del Parlamento. Certo, ormai è prassi indicare prima del voto chi presiederà il governo in caso di vittoria (lo hanno fatto tutti i principali partiti tranne il movimento Cinque Stelle nelle elezioni politiche degli ultimi anni), ma solo nelle consultazioni del settembre scorso la manovra è andata a buon fine con Giorgia Meloni. Prima nessun partito o coalizione era riuscito a ottenere una maggioranza chiara tale da imporre al capo dello Stato la nomina del premier.

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