Uomo forte e sardine
nel vuoto politico

Il 2019 finisce in mezzo al guado, senza sapere dove andiamo. Non c’è solo la domanda insistente, derubricata a giochino di società, che più o meno suona così: il governo dura o no? Siamo dentro un vuoto.

L’anno era cominciato di pancia e finisce con meno livore: è già qualcosa, visto che annaspiamo nel pessimismo cosmico. Tuttavia questi ultimi anni di malapredicazione pesano, specie se l’indifferenza dei più diventa complice neutralità: populismo, Vaffa e indignazione permanente a senso unico sono stati il codice mentale di un popolo stressato, quasi lo stadio estremo e ultimo del carattere nazionale. Una variante ricreativa dopo averle tentate tutte ed esserci andati a sbattere.

Se la febbre rancorosa sembra essere scesa, resta la rottura delle relazioni umane che è l’elemento da curare: l’illustre sociologo Giuseppe De Rita dice che questa è la vera tragedia del Paese. La vediamo da tante cose, non ultime le parole cattive, l’invidia sociale e la gogna show, la cultura del sospetto che diventa l’anticamera della verità. Autorevoli osservatori ritengono che il disincanto stia aggredendo pure il populismo che viaggia sempre a ritmi alti, ma ora più contenuti. Il suo agitarsi, al punto massimo della fase espansiva, non è più trionfale. L’annuncio, insomma, dell’avvicinarsi di un cambio di stagione dovuto all’incapacità di passare dalla denuncia alla proposta, dalla frattura alla costruzione di qualcosa di condiviso.

Ma se questo può apparire credibile, o perlomeno sperabile, al suo posto non si vedono una nuova egemonia culturale e una classe dirigente all’altezza di sostenerla. Una fine d’epoca, per ora presunta, generata da stanchezza, per reazione chimica da saturazione: e vabbè, abbiamo provato anche la trasgressione dei populismi e siamo ancora in brache di tela.

Le Sardine, è vero, che sono lo specchio rovesciato del Vaffa e dintorni, segnalano un risveglio delle coscienze, una contestazione pacifica e ben educata dell’ordine esistente. Un lessico benvenuto, che in tempi normali sarebbe scontato. E però, a di là dei grandi numeri, il timbro è soft e ha i suoi confini: ci siamo anche noi, dicono i ragazzi e i meno giovani, e non ci riconosciamo nella politica che va per la maggiore. Le Sardine, per quanto trasversali, parlano soprattutto alla sinistra, per rincuorare le membra sparse del popolo che fu, ma poi bisogna vedere se vogliono diventare grandi e che cosa vogliono fare. Perché siamo alle solite: la sinistra si culla nella piazza ritrovata, scordando il realismo del socialista Nenni («Piazze piene, urne vuote»), mentre mobilitazioni di questo genere, se non scelgono di istituzionalizzarsi, rischiano di raggiungere l’acme per poi cominciare la parabola discendente.

Servirebbe la capacità d’attenzione di un Aldo Moro, lo statista che intuì come il Sessantotto non fosse solo una questione di ordine pubblico in un’Italia dalle deboli istituzioni e in cui, insisteva, s’annunciavano tempi nuovi. Ecco dove sta il vuoto e lo conferma il Rapporto Demos pubblicato da Ilvo Diamanti su Repubblica, là dove dice che lo Stato non convince e per questo torna la voglia di piazza. Ma non è una piazza animata da tensione ideale e da passione civile, pari a quella che ha consentito alla democrazia italiana di sconfiggere il terrorismo nella notte della Repubblica. È una piazza light, guidata da un sentimento che precede la politica, uno stato d’animo confidenziale che chiede protezione.

Stavolta è la democrazia sotto stress. Conoscevamo già la sfiducia e il discredito del mondo politico, con l’eccezione del presidente Mattarella che resiste quasi in solitudine per il suo profilo personale e valoriale. Quel che si muove nel sottopancia d’Italia è preoccupante, perché si scorge all’orizzonte una crisi nei confronti dello Stato. Una crisi che riguarda il sistema istituzionale, in assenza peraltro di una leadership adeguata. C’è il pericolo di uno sfilacciamento generale che oltrepassa le stesse carenze della classe dirigente.

Piaccia o meno, non c’è, non si trova il leader-federatore capace di riunire, orientare, indicare una meta: mancando il futuro, il presente diventa un fardello. Berlusconi – discusso, contestato e al netto di tutto il resto – è stato un leader riconosciuto come l’uomo che poteva portare il Paese fuori dalle difficoltà. Lo stesso vale per Renzi, durato lo spazio di un mattino e poi rovinatosi con le sue mani. Salvini non ha questo peso specifico, non gli viene riconosciuta una leadership larga: è percepito sì come l’uomo forte, ma dentro i confini del suo campo da gioco. C’è da chiedersi se siamo in recessione democratica e come uscirne, per interrogarci con preoccupato realismo a che punto sia la notte della convivenza civile.

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