Case di riposo: il dovere
di risposte precise

All’inizio è toccato ai medici di famiglia, ritrovarsi abbandonati. Lasciati al proprio destino senza alcun indicazione, men che meno protocolli di cura da seguire. Quindi è stata la volta degli ospedali, a doversi reinventare in tempi record. Ora sulla zattera in mezzo a un mare in tempesta ci si ritrovano le Rsa. Le case di riposo chiamate a curare la nostra memoria: gli anziani. I nonni. E dove i decessi, a dispetto di comunicati generici, sono più che raddoppiati rispetto alle medie degli anni scorsi. Il maledetto virus, checché lascino intendere conferenze stampa altisonanti e proclami da salvatori della patria, ha colto tutti quanti alla sprovvista. E tutti, nessuno escluso (ma davvero nessuno, noi compresi sia ben chiaro), ci siamo ritrovati a improvvisare, a raccontarci un nemico sconosciuto e quindi, inevitabilmente, a prendere decisioni sbagliate.

La premessa è indispensabile per far capire, quindi, che qui non si tratta di voler puntare il dito contro tutto e tutti e di farlo, soprattutto, senza tener conto delle difficoltà incontrate. Ma a un mese e mezzo abbondante dall’inizio dell’emergenza sanitaria lombarda, italiana, europea, mondiale, è ora di cominciare anche a raccontare ciò che non ha funzionato e non funziona. Ed è pure ora di pretendere risposte precise, chiare e non più evasive e generiche.

Da alcuni giorni stiamo raccontando da un lato come i numeri ufficiali diffusi da Ats e Regione siano molto lontani da quelli reali, dall’altro come in molte Rsa si siano diffusi focolai mortali, in numerosi casi tenuti nascosti. E questo al netto degli sforzi e dei sacrifici del personale sanitario che, praticamente senza eccezione alcuna, sta garantendo il funzionamento di un sistema che altrimenti, senza il coraggio di donne e uomini, sarebbe collassato su se stesso.

In questo panorama abbiamo avuto modo di ascoltare la drammatica telefonata intercorsa tra la direttrice sanitaria di una Rsa del Comasco e la nipote di una paziente, dimessa apparentemente sana, ma che aveva invece contratto il Covid. Quando, nei giorni immediatamente successivi alle dimissioni (dimissioni motivate dall’incredibile direttiva regionale che raccomandava alle case di riposo di far spazio per poter ospitare pazienti contagiati), in quella struttura si sono verificati i primi casi sospetti, nessuno si è preso la briga di prendere il telefono e dire alla famiglia: fate attenzione. Risultato: il figlio della signora è in rianimazione. La nipote è a casa con una brutta polmonite da Covid. In quella telefonata a un certo punto la direttrice sbotta, di fronte alla donna che dice: «mia nonna sta morendo». E risponde: «Ha capito che ci sono migliaia di morti? È una pandemia».

Non c’è dubbio che questa affermazione sia vera, ma non c’è neppure dubbio sul fatto che non può essere una giustificazione per accettare che sia così a prescindere e basta domande.

La reazione davvero poco sensibile della direttrice, però, racconta anche un’altra verità: la solitudine in cui i responsabili di moltissime strutture sanitarie si sono ritrovati. Solitudine che causa stress, paura, smarrimento e che impedisce di dare risposte credibili ai famigliari in cerca di perché. Quello smarrimento è sicuramente frutto di una battaglia combattuta su un campo del tutto nuovo e inesplorato, ma è anche sinonimo che qualcosa nel mondo della sanità si è perduto. Il comunicato con cui l’Ats Insubria rivendica quasi con orgoglio che soltanto lo 0,3% degli ospiti delle Rsa della nostra provincia fosse morto per Covid, sapendo che si tratta di un dato del tutto bugiardo, perché si basa sui pochissimi tamponi fatti, e che è lontanissimo dalla realtà, dimostra lo scollamento allarmante che si è venuto a creare tra i palazzi di una sanità sempre più politicizzata e il resto del Paese, sempre più orfano del vecchio “sciür dutür” che le cose te le raccontava per com’erano, per quanto gravi fossero.

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