E se Zalone non fosse
il nuovo Chaplin?

E se Checco Zalone non fosse il nuovo Charlie Chaplin? E se il suo nuovissimo, fortunatissimo e blockbusterissimo “Tolo Tolo” fosse un film mediocre? Non di sinistra, non di destra, non buonista, non qualunquista, non nazionalpopolare, non radical chic. Niente di così complicato: semplicemente un film mediocre?

Il sospetto è sorto spontaneo appena l’ultimo successo del simpatico e per niente stupido attore pugliese è stato immortalato dai peggio tromboni del giornalismo nazionale, ai quali non è parso vero di esercitare la proverbiale arte del salto sul carro del vincitore e, soprattutto, della spiegazione al popolo bue del perché e del percome di tutto lo scibile umano. Cinema panettonesco compreso. Ora, l’esperienza insegna che quando scendono in campo i mejo fighi del bigoncio editoriale trattasi quasi sempre di abbraccio mortale. Avviene regolarmente in politica, il settore al quale devono carriere e tredicesime. Non appena parte la glorificazione a reti unificate del mainstream conformista dell’ennesimo salvatore della patria - Prodi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni… - ma in fondo senza perdere di vista pure i cavalieri neri - Craxi, Berlusconi, Di Maio, Salvini… – che saranno pure cattivi, ma hanno comunque posti e prebende e strapuntini da distribuire, perché è sempre qui che vanno a finire le intemerate dei nostri eroi tuttidiunpezzo, inizia inesorabile la stagnazione, il declino, la rovina. E negli ultimi tempi, a ritmi sempre più serrati, oltretutto.

Se uno riguardasse tutti i panegirici, i ritratti angelicati, i profili da filosofi della Magna Grecia, da marescialli delle armate napoleoniche, da statisti dell’Impero austroungarico che ci hanno rifilato in tutti questi anni e quali e quanti senatori semianalfabeti, deputate coatte con il tacco dodici e capipopolo scappati di casa che non hanno mai gestito manco un bar e amministrato manco il Comune di Zafferana Etnea ci hanno spacciato come leader che a loro De Gaulle gli faceva una pippa, ci sarebbe da scavare una buca fuori da Montecitorio, sotterrarsi e non farsi più vedere per un paio di lustri.

E invece no. Tutti lì a pontificare, a declamare, a discettare, a catoneggiare, a postergare anche sui fenomeni di costume, quali i film di Zalone effettivamente sono, e ora vi spiego qual è la ricetta magica e ora vi svelo l’intrinseco spessore del plot, la valenza connotativa dello script, la geniale rivisitazione del tipo umano italico figlia della grande lezione di Sordi, la trasfigurazione coatta della poetica di Benigni, la suprema capacità di analizzare le contraddizioni di questa società così gassosa e rabbiosa e rancorosa, signora mia, che neanche Risi, Salce e Monicelli, lo spiazzamento bertoldesco riservato ai garruli benpensanti di sinistra e ai beceri buzzurri di destra e via così trombonando a mille su quanto gli altri non abbiano capito nulla di questo artista quanto loro invece sì.

Ma anche qui gli archivi non tradiscono mai. Perché gli stessi esercizi di sociologia da sciampiste, di antropologia culturale da Bar della Pesa, di letteratura da stazione era stata riservata a tutti gli altri fenomeni da botteghino dei tempi recenti: Celentano e Boldi&De Sica (destra), Pieraccioni e Aldo, Giovanni e Giacomo (sinistra), giusto per far qualche nome. E pure lì tutta una prosopopea, tutta una masturbazione, tutta una mascherata su quanto queste pellicole rappresentassero uno spaccato formidabile della società italiana in profonda trasformazione, un marker spietato di cosa bolliva nel ventre molle del paese profondo, una prova della sapienza artigiana di autori che hanno regalato dignità a un mondo che l’intellighenzia arroccata nelle sue torri d’avorio non è più capace di comprendere e bla bla bla. Insomma, dicendo e scrivendo di tutto, salvo l’unica cosa fondamentale. E cioè che, alla faccia del successo di pubblico, forse quelli erano dei gran film di merda (i primi di Aldo Giovanni e Giacomo un po’ meno, però…).

Ma davvero Celentano faceva ridere? Ma davvero? O non ha piuttosto rappresentato la fine del genio comico di Pozzetto? Ma Pieraccioni ha mai veramente girato una sequenza originale, spassosa, irresistibile? Se uno la trova, la segnala a tutti, per favore? Ma davvero i filmacci parolacciai rigurgitanti doppi e tripli sensi da osteria, da suburra, da sale per militari dei Vanzina fanno parte della storia dell’identità nazionale? E che cosa ci raccontano di così fondamentale del nostro essere italiani, delle nostre radici, del nostro costume? E siamo così certi che le commedie - di certo non sciocche - di Zalone siano capolavori del cinema comico o del cinema tout court? Che, sono forse meglio di “Amici miei”, di “Ricomincio da tre”, di “Fantozzi”?

Ma tutti quelli che hanno sbrodolato su “La vita è bella” (il film più sopravvalutato dell’ultimo ventennio) hanno mai visto - sullo stesso identico tema - “Train de vie”? Ma ci rendiamo conto della differenza di genialità, soprattutto della differenza di divertimento tra l’uno e l’altro? E a proposito di commedia di costume, il capolavoro di questo decennio è sicuramente “Cena tra amici”, poi devastato in Italia dal ridicolo remake della Archibugi. Che ferocia, che gioco degli equivoci, che spietata fustigazione dei tic e dei birignao della sinistra radical chic intellettuale e del becerismo fanfarone degli arricchiti incolti di destra (esistono pure in Francia, ma guarda un po’…). E che risate. Che risate assolute, intelligenti, spiazzanti, politicamente scorrette al mille per mille.

Ci sono capolavori che fanno i milioni e altri che non vede nessuno. Ci sono porcherie che sbancano i botteghini e altre che vengono tolte dopo due giorni. È il grande mistero del filo che lega il pubblico a un autore. Lasciamo che il primo si svaghi anche con opere da tre soldi e che il secondo si infili in una narrazione alla Scola forse troppo grande per lui. Zalone è Zalone. E tanto basta. Perché dobbiamo coprirlo di ridicolo paragonandolo a Totò?

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