La fragilità dell’uomo
è il vero messaggio

Natale è il tempo della bontà. Ma anche della retorica. E dei luoghi comuni. E dei tromboni che vagheggiano i bei tempi andati, quando c’era rispetto per mamma e papà, ci si voleva bene e non ci si sentiva mai soli.

A proposito di solitudine, ha fatto scalpore, anzi, come si dice adesso, ha fatto il giro del web la confessione di un manager inglese cinquantenne che in un video diventato subito virale ha confessato di avere tutto, fuorché un amico. Mark Gaisford, a dispetto del successo della sua carriera professionale, dell’ottimo stipendio, della famiglia felice con moglie adorata e due figli esemplari, è un uomo solo. Talmente solo da voler condividere questa sua sensazione opprimente - si sa, passati i cinquanta si inizia a fare un po’ di conti e a sistemare un po’ di pratiche perché la curva a gomito può sbucare in qualsiasi momento - con gli altri. Come detto, la risposta all’outing è stata clamorosa: un milione di visualizzazioni, migliaia di messaggi di solidarietà, l’onore della prima pagina di giornali e tv in tutto il mondo.

E come ancor più prevedibile - la nostra capacità di buttarci mani e piedi e naso e crapone nel luogocomunismo è ormai proverbiale - è partito il circo della retorica pauperista-catto-mondialista-perbenista-filistea. Ed eccolo qui il prezzo del successo e tanto carrierismo per che cosa e questo è ciò che succede a chi vende l’anima al demonio ed eccolo qui il mondo delle multinazionali ed eccola qui la società del profitto ed eccola qui la desertificazione dei rapporti umani ed eccolo qui il modello di sviluppo della lurida e ignobile e marcia e stramarcia cultura occidentale e dove andremo a finire, signora mia, e guardi come ci siamo ridotti, mica come ai nostri tempi quando l’acquafrescaio bussava alle porte del paese, il salatore di aringhe scrutava la Provvidenza beccheggiare all’orizzonte con il suo carico di lupini, lo spazzacamino raccontava la favola di Natale ai bimbi della cascina dell’Albero degli Zoccoli e maestrine dalla penna rossa e piccole vedette lombarde e aggettivi e vezzeggiativi e memorie malinconiche di quei giorni che furono. Ogni parola, una carie. Ogni pensierino, una colata di melassa. Ogni struggimento, un picco di glicemia.

Va bene che l’epoca del rimbambimento generale avanza a plotoni affiancati, ma davvero crediamo che la solitudine confessata dal manager inglese sia figlia in esclusiva di questi tempi bui e tempestosi, frutto avvelenato di una società che ha perso il senso dei legami, delle radici, della memoria, della comunità e bla bla bla? Siamo così superficiali e banali e infarciti, intrisi, plasmati dal mainstream da credere che quest’epoca sia la peggiore di tutte quelle mai apparse nella drammatica e penosa storia degli uomini? L’uomo solo, la solitudine dell’uomo, la dimensione vitale dell’essere umano gettato nell’esistenza e sballottato da mille forze più grandi di lui, ostili, immanenti, inconoscibili, l’unicità del suo vivere da monade, pellegrino solitario che attraversa mille terre, varca mille confini, incrocia mille altre persone, verga il suo diario odeporico, è un tema sul quale si sono affaticate le migliori intelligenze della storia della civiltà. Esiste una vastissima letteratura che sostiene l’esatto contrario di quanto trombonato ai quattro venti dai nostri mejo editorialisti del bigoncio. Ma esiste soprattutto l’esperienza personale di ognuno di noi. L’uomo per sua natura è solo. Nasce solo. Vive solo. Muore solo. Individuo. Entità a se stante. Soggetto unico e irripetibile. Che certo ha bisogno degli altri, di relazioni, di conforto, di affetto e, soprattutto, di comprensione, pietà e perdono. Ma solo è e tale rimane.

Ma crediamo davvero che soltanto i nostri giorni siano affollati di finti amici, di relazioni sterili, di colleghi infidi, di telefonate stucchevoli, di complimenti postdatati, di tenerezze posticce e che tutto dipenda dalla società di massa consumista e conformista che riduce ogni cosa a merce e interesse (che la società di massa faccia schifo è certo, ma non è questo il punto) e che in sua assenza, prima di lei, tutto fosse rose e fiori e amicizia e amore e solidarietà? Tutti si sentono soli. Tutti sono senza amici. Tutti davvero. In qualsiasi epoca, a qualsiasi latitudine, in qualsiasi classe sociale, perché se i ricchi piangono lo fanno pure i poveri, statene certi, soli, solissimi, gli esseri più soli nell’universo, tutti quanti, manager digitali, beccai del Quattrocento, esploratori dei mondi sommersi, mignotte da motel svincolo autostrada, pretini azzimati, professoroni di antropologia culturale, sciampiste fan di “Uomini e Donne”, viscontesse delle Tuileries, orafi nasuti del ghetto di Varsavia, fantaccini di Carlo Alberto, allenatori delle giovanili dell’Ambivere-Mapello, pesiste bulgare dopate, pseudosindacalisti pulciosi, madonnine infilzate, impiegati del catasto con l’uzzolo della rivoluzione proletaria e tutto il resto del presepe della dolente e grottesca umanità che il buon Dio, in un attimo di stravaganza, ha mandato a popolare questo vecchio sasso.

Ah, gli amici. Il povero manager non ha amici. E si sente solo. Sai che notizia. Anche quello là da cui dipende tutta la nostra storia a un certo punto si è sentito solo, abbandonato e reietto. E proprio dai suoi cari. Uno lo ha tradito, gli altri dormivano e quell’altro ancora lo ha rinnegato tre volte prima che cantasse il gallo. A quel punto della sua vita, a quel punto decisivo, era rimasto senza amici pure lui. E dire che si era sempre comportato bene. Almeno un amico vero se lo sarebbe meritato, non è così? E invece niente. Sembrava che anche il papà lo avesse lasciato solo. “Padre, perché mi hai abbandonato?” è il passaggio più terribile e commovente e straziante di tutta la Bibbia, quello in cui lui è compiutamente uomo. Uomo solo. Uomo ripudiato. Uomo disperato. Poi, per fortuna, il disegno divino era diverso. Ma quella fragilità, forse, è il suo vero messaggio universale.

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