Noi, eterni precari
di fronte al virus

E così, è bastato un piccolo virus sconosciuto e poco pericoloso - ogni anno in Italia ci sono milioni di contagiati e ottomila morti a causa dell’influenza normale, ad oggi un contagiato e zero morti a causa del coronavirus - per far sì che tutta una società ricca, colta, moderna, sviluppata, multimediale e interconnessa finisse nel panico più assoluto.

È questo il vero dato significativo, culturale, antropologico della psicosi più trendy della stagione autunno-inverno. Altre ne abbiamo viste prima - inquinamento da plastica: moriremo tutti!, riscaldamento globale: moriremo tutti!, invasione dei migranti: moriremo tutti! - altre ne verranno dopo. Ognuno sceglierà la sua, ma questa possiede qualcosa di unico, di speciale, di atavico, nutrita da radici profondissime che arrivano fino a lambire la natura vera degli esseri umani. E che quindi scavalcano epoche, latitudini, lingue e culture e ci dimostrano quello che siamo veramente e quali sono le pulsioni che determinano la nostra vita, i nostri pensieri, le nostre azioni. E che manifestano quanto sia fragile e inerme e indifeso l’uomo di fronte all’inconoscibile, all’invisibile, all’incontrollabile.

Se c’è una cosa che assembla in sé tutte queste caratteristiche destabilizzanti è proprio il virus, metafora dell’esistenza e della sua caducità, dell’ingiustizia insensata che governa il mondo, della livella che falcia ricchi e poveri, potenti e nullità - ricordate la fine di Don Rodrigo? - dell’ira del Signore contro le nequizie di noi uomini piccoli piccoli. E il fatto che nulla sia cambiato delle nostre reazioni a distanza di secoli, da quelli mitologici della peste, del colera, del vaiolo, della spagnola e di tutto il resto dei contagi che hanno devastato e forgiato la società nel corso dei millenni, a oggi periodo aureo nel quale, a rigore, dovremmo tutto sapere, tutto conoscere, tutto capire e, quindi, tutto decodificare, è una prova provata di come non ci sia mai nulla di nuovo sotto il sole.

Tutto uguale. Esattamente come cento anni fa, trecento anni fa, mille anni fa. Paura e terrore e panico e capri espiatori e dagli all’estraneo e dagli al negro e dagli all’ebreo e dagli al cinese e mascherine e scuole chiuse e ristoranti deserti e sguardi sospettosi e occhi di bragia e ditini puntati e lettere scarlatte e via dai bus e via dei treni e via dai tram e leggende metropolitane e balle spaziali e il trionfo delle lavandaie, dei molesti da bar, dei cazzari che a loro glielo ha detto suo cugino. E tutto quanto moltiplicato dal delirio nevrotico dei giornali, dalle inchieste surreali dei talk show, dai quali emergono giornalisti scapigliati che non sanno nulla dell’argomento che trattano - sai che novità… - ma che intervistano esperti di fama mondiale che invece sanno tutto e, infatti, dicono che un’incidenza mortale del coronavirus al 2% è inferiore a quella della normale influenza e quindi non c’è nulla di cui preoccuparsi, ma invece per loro - i giornalisti scapigliati che non sanno nulla di cui sopra - è allarme planetario lo stesso. E via via, in un crescendo rossiniano, di chi è la colpa e a chi giova e lorsignori mangiano e bevono mentre il popolo schiatta nei lazzaretti e le multinazionali e le trilaterali e il complotto demoplutogiudiacomassonico, per arrivare all’inesorabile “e lo Stato dov’è?”, vero marchio di fabbrica dell’informazione cialtrona bipartisan. Passata quella soglia, parte il Circo Togni, all’interno del quale la cloaca maxima del web si esprime a livelli - sintattico-grammaticali, oltre che tecnico-scientifici - di valore europeo. Fellini docet: il grottesco è la nostra dimensione.

Ma poi non basta neppure questo. Perché se è vero che i media sfornano immondizia e disinformazione a ritmi vertiginosi, il tema è comunque più profondo. La paura è uno dei capisaldi dell’esistenza. E la paura assoluta, la paura inconscia, la paura ancestrale è quella della fine. La società del benessere, dei consumi, dello sviluppo ha passato i decenni nel tentativo di esorcizzarla, di omeopatizzarla, di insabbiarla sotto una fitta coltre di bambagia e comfort, fino a espellerla dall’orizzonte collettivo, dal sentire comune, trasformandola in un fantasma, uno spettro scespiriano confinato agli ospedali, alle case di riposo, agli hospice, insomma, ai luoghi deputati per andare a morire senza farsi vedere. Tutto il resto è programmato: prevenzione, screening, stili di vita, curva biologica, cura del corpo, piano pensionistico, tempo libero organizzato. Ma poi, all’improvviso, sbatti il muso su una cosa del genere che ti spariglia i piani, ti pone di fronte all’angoscia - per quanto, lo abbiamo detto, del tutto immotivata: si muore mille volte di più di infarto, cancro, ictus, incidenti stradali, incidenti domestici eccetera - che tutto possa chiudersi all’improvviso.

Forse è lì che capisci che in ogni momento puoi perdere tutto, in ogni momento può arrivare la tua fine - “vegliate, dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora” - e in quel momento il risibile trucco su cui si basano le nostre esistenze, la nostra patetica presunzione di immortalità, casca per terra e ti lascia nudo e inerme e vergognoso di fronte al senso incomprensibile della vita. E capisci che al di là di tutto quello che pensi e dici e chiacchieri e di tutte le pippe che ti fai tutti i giorni e come sono infelice e nessuno mi ama e quello lì ce l’ha con me e quello là mi odia e lei non mi vuole più e loro sono degli ingrati e gli orari e gli uffici e i colleghi velenosi e i livori e gli umori e i soldi e le carriere e le frustrazioni e tutto il resto che volete voi sul quale disperdiamo le nostre declinanti energie sono tutte buffonate. Perché una cosa sola conta. Essere vivi. Essere ancora vivi. Attaccati a quello che c’è come una cozza allo scoglio. Perché quella roba lì, per quanto schifosa e tragica possa essere, è l’unica cosa che hai. L’unica cosa che abbiamo. Per fortuna che ogni tanto arriva un coronavirus a ricordarcelo.

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