«Contro le mafie c’è tanto da fare, ma si possono sconfiggere»: la parola a Cortese che arrestò Brusca e Provenzano

Incontro Nel corso di una serata organizzata dal Lions club di Cernobbio, ha parlato della sua esperienza da investigatore, che l’ha portato a indagare su mafia, terrorismo, ‘ndrangheta e strategia stragista di Cosa nostra

I motorini “smarmittati”, la caccia ai pizzini e l’ingegnere tedesco che ha inventato il gsm. Anche così lo Stato italiano ha saputo reagire alle stragi mafiose e sconfiggere Cosa Nostra. «Ma contro le mafie c’è ancora tantissimo da fare, a cominciare dai comportamenti di tutti i giorni».

Renato Cortese ha una flemma e un tono di voce pacati che devono essergli tornati utili negli anni terribili delle indagini sulla strage di Capaci e di via D’Amelio, in quelli esaltanti degli arresti di Giovanni Brusca e Bernardo Provenzano e quando ha indagato nella maxi operazione contro la ‘ndrangheta Crimine-Infinito, che 12 anni fa ha assestato un duro colpo ai clan calabresi anche in provincia di Como.

Una vita da investigatore: «La parte più bella del lavoro del poliziotto»

Capo della squadra catturandi prima e della squadra mobile di Palermo poi, direttore del Servizio centrale operativo della polizia di Stato, capo della mobile di Reggio Calabria, Questore di Palermo, prima di parlare alle tantissime persone accorse per ascoltarlo nella serata organizzata e voluta dal club Lions di Cernobbio, ammette: «Ho avuto la fortuna di fare la parte più bella del lavoro del poliziotto». Investigatore da una vita, Renato Cortese ha indagato su mafia, terrorismo, ‘ndrangheta, strategia stragista di Cosa nostra.

«Sono arrivato a Palermo 20 giorni dopo l’assassinio di Paolo Borsellino e dei ragazzi della scorta – racconta – Ero al mio primo incarico, e mai avrei sperato di poter ambire alla squadra mobile del capoluogo siciliano. Ma era il 1992, l’anno in cui lo Stato ha deciso di rispondere con fermezza alle stragi mafiose». Scordatevi la Palermo di oggi, con i ristoranti, la via della movida e le passeggiate nei quartieri del centro a ogni ora del giorno e della notte: «In quegli anni sembrava di essere a Beirut – ricorda Cortese – c’erano militari armati a ogni angolo della strada e sparatorie tutte le sere». Erano gli anni in cui, quando l’autore della strage di Capaci, Giovanni Brusca, fu arrestato «in Questura ad aspettarci c’erano centinaia di colleghi, ma nessun palermitano». Renato Cortese non ne fa mistero: «Tra il 1992 e il 1993 (anno delle stragi di via dei Georgofili, via Palestro e della mancata strage dell’Olimpico di Roma ndr) lo Stato italiano ha vacillato. Abbiamo corso un enorme pericolo, ma le istituzioni hanno saputo rispondere. E la strategia stragista di Riina è stata l’inizio della fine per Cosa nostra».

«La mafia è un comportamento: occorre fare attenzione alle persone da frequentare»

Al presidente del club Lions, Emilio Carletti, che gli ha chiesto come si può capire se in un paese o in una città è presente la ‘ndrangheta, Cortese ha replicato: «La mafia è innanzitutto comportamento. Quando si cercano le scorciatoie, quando si pensa di poter non pagare le tasse, quando si crede di poter violare le regole, lì creiamo il terreno fertile per le mafie». E ha aggiunto: «Ho imparato che bisogna essere bravi, nella vita, a scegliere le persone da frequentare. E che a volte è meglio stringere una mano in meno e rifiutare un caffè». Un monito a “quella parte di Stato” composta da pubblici funzionari, politici, colletti bianchi che sono vulnerabili alle mafie.

Il trucco del gsm e della moto smarmittata per localizzare Brusca

Ma la serata a Cernobbio è stata anche l’occasione per sentire, dalla viva voce di uno dei protagonisti, i retroscena dei colpi inferti a Cosa nostra. Come quando nel 1996 venne arrestato Giovanni Brusca: «Erano gli anni dei primi telefono cellulari, quelli con i numeri 330 o 337. Brusca aveva uno dei primissimi 335, all’epoca impossibili da localizzare. L’allora procuratore di Palermo, Caselli, fece arrivare in Questura l’ingegnere tedesco che inventò il gsm. E fu lui a spiegare alla Tim e a noi come poter restringere di poche centinaia di metri il raggio di una chiamata. Fatto quello ci inventammo il passaggio della moto smarmittata per individuare la casa dove si nascondeva: quando partiva l’intercettazione un poliziotto iniziava a girare per le vie con quella moto rumorosisisma. Quando l’abbiamo sentita nel telefono, abbiamo capito dove si nascondeva». E infine la cattura del capo dei capi, Bernardo Provenzano: »Ogni volta ci dicevano “Iddu non lo prendete”. Quando nel 2006 lo abbiamo preso, in un casolare accanto a una piccola azienda di formaggi, fuori dalla Questura ad aspettarci c’erano centinaia di palermitani». La rivincita dello Stato era compiuta. Le mafie si possono sconfiggere.

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