Sub morta nell’immersione: «Errori di chi poteva aiutarla»

Il processo Depositate le motivazioni della sentenza dei giudici d’Appello. Chi era con Paola Nardini ha ritardato le manovre per riportarla a galla

Il problema all’erogatore da cui Paola Nardini stava respirando «è rimasto inspiegato», ma da quel momento in avanti iniziarono delle «condotte attive ed omissive» da parte almeno di uno dei due compagni di immersione, che hanno portato all’esito funesto di quella spedizione che comunque era stata impostata e organizzata oltre quello che era il limite che i tre sub avrebbero dovuto rispettare, i -40 metri (invece scesero a -56).

Sono state depositate le motivazioni della Corte d’Appello che hanno stravolto le decisioni sia di primo sia di secondo grado (assoluzione per gli imputati) poi annullate dalla Cassazione. Una vicenda che è comunque prescritta – avvenne del settembre del 2013 – ma in cui i giudici d’Appello hanno riconosciuto in capo al solo Daniele Gandola, 63 anni, che si calò nelle profondità del Lario insieme a Paola Nardini (che non riemerse più viva) e a Walter Sordelli, pure lui di 63 anni, responsabilità anche se limitate agli effetti civili, accogliendo le richieste dell’avvocato Edoardo Pacia che ha assistito i parenti della vittima.

In questa storia complicata, che è stata seguita anche a livello nazionale per capire proprio le decisioni dei giudici prese grado dopo grado, a Como e a Milano erano arrivate assoluzioni ritenendo che i compagni di immersione di Paola – 35 anni di Tavernerio – non avessero responsabilità avendo comunque tentato, pur in una situazione di pericolo estremo, di «prestare aiuto». Inoltre, sempre secondo i primi due giudici, la Nardini era «esperta al pari degli altri due sub» e pertanto «in grado di assumersi il rischio di quell’immersione» davanti alla punta di Villa Geno.

Tutto è però stato ribaltato dalla Cassazione (che ha annullato la sentenza) e poi dall’Appello di Milano chiamato nuovamente ad intervenire. Nelle motivazioni, pubblicate da poco, si parla espressamente «di responsabilità omissiva e commissiva» da parte di Gandola, che non passò alla compagna in difficoltà «il proprio erogatore», che «andò a chiamare Sordelli» al posto di intervenire subito dopo aver appreso le difficoltà della donna e che dunque per questo motivo ritardò le manovre per tentare di riportare a galla la vittima, seppur in un quadro di pericolo estremo e di alta drammaticità. I giudici ipotizzano anche la chiusura per errore («da ritenersi probatoriamente certa») di uno dei due erogatori che aveva la Nardini. Sordelli intervenne in un secondo momento, richiamato proprio da Gandola, quando la situazione era già compromessa.

A dare il via alla serie di eventi che si conclusero con l’annegamento della sub, ci fu però un imprevisto rimasto tecnicamente inspiegato, ovvero la perdita di una gran parte di ossigeno da uno degli erogatori. In generale, però, i giudici meneghini hanno contestato tutta l’immersione (comprese le modalità di risalita) oltre alla profondità raggiunta. Le conclusioni sono quelle già note: la condanna di Gandola al risarcimento dei danni da «liquidarsi in separata sede» disponendo una provvisionale da 40 mila euro e l’assoluzione per Sordelli.

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