«Gli skinheads assolti? Non hanno commesso violenze. Solo una messa in scena arrogante»

La sentenza Le motivazioni dell’assoluzione per il blitz del 2017 contro Como Senza Frontiere. «Chiaro il loro intento di disturbare, ma non basta la costrizione a fare o a tollerare qualcosa»

«Certamente si è trattato di una arrogante messa in scena, con il solo intento di obbligare all’ascolto della lettura integrale del comunicato del Fronte Veneto Skinheads». Tutto questo però non basta per definire quello che avvenne il 28 novembre 2017 nel corso di una riunione di “Como Senza Frontiere” (in cui il tema era l’accoglienza dei migranti) come un atto di violenza privata perché dalla visione del video – che fu ripreso da uno degli indagati e che aveva fatto il giro d’Italia – non emergerebbero quella violenza e quelle minacce «necessarie» per la configurazione del reato. In quanto, si legge ancora, «per la violenza privata non basta la costrizione a fare o a tollerare qualcosa».

Condanna ribaltata

Con queste parole, i giudici della Seconda Sezione Penale della Corte d’Appello di Milano hanno motivato la sentenza del 28 marzo scorso che aveva portato alla assoluzione «perché il fatto non sussiste» dei 13 imputati che erano finiti nei guai, indagati dalla procura di Como (e condannati in primo grado a pene tra l’anno e 8 mesi e l’anno e 9 mesi) per il blitz di estrema destra che andò in scena al Chiostrino di Sant’Eufemia. Una sentenza che aveva accolto quelle che erano state le richieste degli avvocati della difesa, Antonio Radaelli del foro di Como che lavorò con i colleghi Giovanni Adami e Paolo Botticini.

La decisione dei giudici di secondo grado, che avevano ribaltato la sentenza dei colleghi di Como, aveva fatto molto discutere anche perché le immagini di quanto avvenne quella sera, riprese in un video, erano rimaste negli occhi della gente con il gruppo di skinheads che aveva costretto i presenti ad ascoltare la lettura del comunicato contro l’accoglienza dei migranti.

«Solo un blitz scenografico»

Secondo la corte, certamente quell’ingresso fu «scenografico» e «arrogante», e sicuramente la riunione che era in corso «fu interrotta con l’intento evidente di disturbare». I tredici imputati «nemmeno si scusarono», ed era evidente pure che «volevano stare in piedi in quanto sapevano già prima come disporsi», ovvero alle spalle dei volontari di “Como senza frontiere” che invece erano seduti al centro della stanza.

La difesa sul punto aveva provato a giocare la carta della «stanza piccola», che non poteva consentire altra disposizione, ma i giudici meneghini al riguardo sono netti: «Tutto era già stato deciso prima». Nonostante tutte queste premesse, tuttavia, non è ravvisabile – sempre secondo i magistrati milanesi – un «marcaggio a uomo» e neppure un «accerchiamento intimidatorio», seppur scenografico. Ed anche la «costrizione non c’è stata», come pure non ci sono state violenze e minacce: «Si vede un uomo che prende un cellulare – scrivono i giudici – che si alza dalla sedia... una donna che esce e rientra... altri che sorridono». Insomma, per la violenza privata – che era la contestazione – «non basta la costrizione a fare o a tollerare qualcosa» pur in presenza in un modo di agire «arrogante» con il chiaro intento di disturbare la riunione che era in corso nel Chiostrino.

Serata – è la chiosa – che si era anche svolta in un «edificio pubblico aperto a tutti» con un «cartello che indicava la stanza e l’orario dell’assemblea», e in cui gli imputati erano entrati «senza forza, in fila indiana e senza rumoreggiare», dunque «senza fare irruzione».

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