«Io, Fabrizio e la scoperta di Bob Dylan»

L’incontro Dori Ghezzi in arrivo sul lago di Como per “Bellezze interiori”: parlerà di De André e del cantautore Usa. Con lei Scarlet Rivera, violinista nell’album “Desire”: «Tra gli artisti si crea un’affinità che va al di là delle parole»

Dori Ghezzi racconta Fabrizio De André domani a Tremezzo sul lago di Como nell’ambito degli eventi di “Bellezze interiori”, rassegna che permette di scoprire interni di dimore e corti normalmente non accessibili al pubblico. E sarà una narrazione che si confronterà con quella di Scarlet Rivera, violinista scoperta da Bob Dylan, che la volle per le session dell’album “Desire”, uno dei più amati della carriera del cantautore americano, e per la carovana itinerante della “Rolling thunder revue”, a metà degli anni Settanta.

«Ho scoperto Dylan prima di Fabrizio – racconta Dori Ghezzi – perché lui, anche per famiglia, di discendenze francesi, era più vicino alla chanson, a Brassens, naturalmente, ma non solo. Poi si è avvicinato e ha tradotto Leonard Cohen per poi avvicinarsi a Dylan. Lui parlava benissimo il francese, ma non l’inglese, quindi per capire i brani doveva affidarsi alle traduzioni, ma i concetti gli arrivavano subito. Penso che fra artisti ci sia un’intesa che va al di là delle parole. Del resto è stato lo stesso per me con Scarlet, dalla prima occasione in cui Andrea Parodi ci ha fatte incontrare: ci basta uno sguardo per comunicare e per capirci».

Traduttore

Non si ricorda abbastanza spesso che De André è stato anche grande traduttore e, quindi, divulgatore. Classici di Geoeges Brassens come “Le gorille”, “La marche nuptiale” e “L’assassinat” si conoscono principalmente nelle versioni del poeta della canzone genovese, che scrisse anche testi italiani per “Suzanne”, “Jeanne d’arc” e “Nancy” di Cohen. Dylan, al contrario, era già autore affermato e ben noto anche nel nostro Paese quando, con l’aiuto di colleghi allora giovanissimi come Francesco De Gregori e Massimo Bubola, realizzò prima “Via della povertà” (“Desolation row”), poi “Avventura a Durango” (“Romance in Durango”).

Nel primo caso si trattava di trovare nuovi colori all’affresco dipinto da uno Zimmerman nel pieno del suo periodo più surrealista, figlio della lezione della beat generation, con immagini e personaggi che si susseguivano vorticosamente e che De André, in concerto, stravolgeva inserendovi personaggi del mondo politico nostrano, con grande gusto e sferzante ironia. Nel secondo caso è un Dylan più tardo, che scrive a quattro mani con il drammaturgo Jacques Levy un racconto western, con un ritornello dai sapori messicani che, con un’intuizione semplicemente geniale, da noi divenne napoletano. Ma c’era una differenza sostanziale, tra i due artisti. Dylan, ancora oggi, si comporta come un jazzista, stravolge i suoi brani rendendoli, talvolta, irriconoscibili, cambiandone gli arrangiamenti in corso d’opera, talvolta direttamente sul palco, lasciando indietro anche i propri musicisti.

Diverso passato

Per De André, invece, le canzoni dal vivo dovevano rispecchiare perfettamente quelle incise in studio. «Venivano da un passato diverso – spiega Dori Ghezzi – Dylan nasce come performer, affrontava il palcoscenico da solo già all’inizio degli anni Sessanta. Per lui esibirsi era una condizione naturale. Per Fabrizio, invece, l’arrivo al concerto fu un percorso tortuoso, che si confrontava con il suo perfezionismo e con le sue insicurezze».

In comune, sicuramente, la cura nella stesura dei brani: «La canzone, come struttura, poteva uscire anche in una giornata, ma poi c’era un lunghissimo lavoro di cesello sulle parole, sugli aggettivi, prima ancora di affrontare il discorso musicale». Piace immaginarlo all’Agnata, nella Sardegna del suo cuore, mentre scrive e riscrive.

«Quando è iniziata la nostra storia non sapevamo dove vivere: io stavo a Milano, lui a Genova. A metà strada? Ma poi la grande fortuna di trovare quel posto meraviglioso, a cui abbiamo lavorato anche con molta incoscienza, come sprovveduti, devo dire. Forse perché l’amore conduce a fare qualunque cosa».

Un buen retiro? Tutt’altro «Non volevamo isolarci, anzi. Era più facile che gli amici ci venissero a trovare lì che in città. Ancora oggi c’è sempre tantissima gente». Una situazione che, per certi versi, ricorda proprio quella delle “Bellezze interiori”, scoprire luoghi altrimenti nascosti. «L’amore per la campagna, per quella vita fu una delle cose che ci hanno unito – conclude – E sono molto felice di scoprire nuovi luoghi su un lago che amo molto e che ho frequentato tanto, soprattutto da bambina, con i miei genitori». Un’immersione nella natura che condiziona anche la musica: «Un artista, un vero artista, è inevitabilmente a tutto quello che lo circonda e quindi è inevitabile che la natura circostante giochi un ruolo». In fondo anche le canzoni, tutte le opere d’arte, sono bellezze interiori, che un autore porta al di fuori di sé.

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