«Chi non ama ha fallito. I volontari? Preziosi, ma nessuno può andare avanti solo». L’intervista al vescovo di Como

Oscar Cantoni Il Cardinale incontra i lettori di Diogene: «C’è tanta solidarietà tra i comaschi, ma manca un coordinamento»

Si siede al tavolo, davanti alle statuine di un presepe peruviano che rappresentano Giuseppe, Maria e Gesù e che sono espressione del legame della Diocesi di Como con il Perù. Alle spalle il disegno di don Roberto Malgesini, fatto dai detenuti del Bassone. Sul volto un sorriso caldo, che sa di accoglienza. Il cardinale Oscar Cantoni parla a Diogene, e lo fa alla vigilia del Natale per parlare di solidarietà, altruismo, accoglienza e volontariato.

Monsignor Cantoni, anche quest’anno ci saranno persone che trascorreranno la notte di Natale in un dormitorio per difendersi dal freddo o addirittura in qualche fabbrica dismessa. E anche quest’anno ci saranno volontari che dedicheranno il Natale ad aiutare chi è meno fortunato di loro. Un’immagine che offre diversi spunti di riflessione. Il primo, negativo: pandemia, crisi economica, guerra, crisi energetica stanno aumentando il numero di persone che faticano ad arrivare alla fine del mese. Intere famiglie spengono il riscaldamento perché non possono permettersi di pagare la bolletta, o faticano a garantirsi un tetto sulla testa. Quanto è grave l’emergenza povertà?

Questo è un Natale difficile, ancora più impegnativo di quello dello scorso anno che già lo è stato. Ci siamo trovati a vivere un’esperienza di guerra che pensavamo fosse già superata: distruzioni, uccisioni e morte vicino a casa nostra. Noi stiamo pagando le ripercussioni di questo conflitto, oltre al peggiorare delle conseguenze della pandemia con una crisi economica che andrà a riversarsi in modo sempre più drammatico sulle realtà più povere: famiglie che arrivano a fatica a fine mese, aiuti economici che si aspettano dalla società e anche dalla chiesa.

Un quadro preoccupante...

Una realtà difficile e impegnativa, di sicuro. Ma questa crisi va assunta con impegno. Non si può uscirne con soluzioni evanescenti, quasi scappando e facendo finta che non ci sia, tanto è Natale. Questo tempo di crisi è un’occasione per imparare ad abitare la solitudine, innanzitutto, e attivare la capacità di pensare. La ricerca del senso della vita, nella crisi, si acuisce. Le esperienze di relazione sociale vanno sempre più promosse, perché o ci mettiamo insieme e affrontiamo insieme la crisi oppure non troveremo una soluzione.

Il secondo spunto di riflessione, rispetto all’immagine di apertura, è positivo e dimostra la solidarietà e la capacità di migliaia di comaschi di mettersi al servizio degli altri. Non crede?

Questa esigenza di solidarietà è venuta alla luce per dare un senso alla vita che stiamo attraversando. Siamo tutti coinvolti in una medesima situazione e a me pare molto bello che si pensi a un Natale che sia di solidarietà e non di evasione. A volte sembra che, siccome è Natale, allora divertiamoci e facciamo finta non ci sia niente. Le situazioni che stiamo vivendo, però, sono impegnative e problematiche. Per fortuna, però, sono tante le persone che si impegnano e che si mobilitano per un volontariato attivo, che si traduce a livello singolo ma anche attraverso le grandi organizzazioni di volontariato che ci sono. Io ovviamente sottolineo la Caritas, ma devo riconoscere che ci sono tante altre forme di volontariato positive, presenti e operative.

Cosa manca secondo lei al mondo del volontariato?

Nessuno può andare avanti da solo. Serve maggiore coordinamento e coinvolgimento per sintonizzarsi e fare in modo che si provveda a diversi campi con un’organizzazione più globale.

In effetti si ha la sensazione che manchi una rete...

Si, c’è bisogno di una guida. Ma si sente che c’è tanto desiderio di bene ed è un desiderio che interessa non solo le persone che vivono un’esperienza cristiana, ma anche chi fa altre scelte ma ugualmente sono coinvolte in questo desiderio di bene. Lo vediamo anche nelle nostre parrocchie, soprattutto con quell’esperienza che sta diventando sempre più significativa che si chiama progetto Betlemme.

La proposta di accoglienza che coinvolge dieci diverse parrocchie...

È fatto per piccoli gruppi, in modo tale da stabilire una relazione più diretta e più vicina alle persone. E in questo progetto sono coinvolte tantissime persone, anche laici che non hanno niente a che fare con la parrocchia ma che si sono dette disponibili e questo è un dato molto positivo. Sono persone che avvertono la responsabilità e cercano di fare qualcosa.

Peraltro questa dimensione di solidarietà, quasi personale, questo essere accanto a ciascuno, caratterizzava l’agire di don Roberto Malgesini. Quanto manca il suo esempio?

Questo modo di essere vicino agli altri ci rimanda a uno stile. Che è lo stile di avvicinare tutti amabilmente senza giudicare nessuno, accoglierli nella loro individualità ma anche nei problemi che avevano, senza mai arrivare a dire tu sei estraneo, tu sei escluso, tu non c’entri, prima noi. Don Roberto accoglieva chiunque, e diventava solidale anche con chi gli era contro. E questa è una cosa eccezionale. Sapeva trovare la formula per coinvolgere tutti. E questo non è da poco.

Quando lei è tornato da Roma, dopo l’elevazione a cardinale, la sua prima tappa ha voluto che fosse in piazza San Rocco. E davanti alla Croce che ricorda il martirio di don Roberto, ha voluto lanciare un messaggio preciso ai seminaristi: dovete essere disposti al sacrificio. Come si fa a essere disposti a qualcosa di così definitivo?

Mi ricordo bene. Qualcuno si è stupito e ha detto: ma perché dobbiamo finire i seminaristi? In certe situazioni le persone sono più disponibili a un incontro e quello era il momento e il luogo giusti. Ho detto loro: siamo in un posto dove una persona ha dato la vita. E questo dare la vita è tipicamente cristiano, è un gesto eucaristico, come Gesù che ha dato la vita. Quindi se volete fare della vostra vita un dono, allora andate avanti e la vita stessa vi indicherà come servire le persone. Se volete pensare di fare carriera e diventare qualcuno, cambiate mestiere. Ho parlato molto chiaro.

Sono rimasti tutti o qualcuno è scappato?

(Sorride) Per adesso mi pare che siano rimasti tutti ed è una bella cosa. Quando li ho portati dal Papa, il Pontefice gli ha detto: siate santi e siate normali. In quel normale lì c’è dentro davvero tanto.

Questo 2022 è stato caratterizzato da un conflitto atroce nel cuore dell’Europa, lo ha citato lei stesso prima. È rimasto sorpreso dalla capacità di accoglienza della popolazione comasca nei confronti degli ucraini in fuga dal conflitto?

Sono stato molto commosso per il fatto che sia i comaschi che i cittadini di Sondrio hanno aperto le loro case per ospitare gli ucraini. Persone che hanno accolto per dare un primo soccorso immediato, ma non solo. Gli ucraini hanno qui una bella tradizione: molti sono venuti perché qui hanno loro parenti che fanno i badanti. Quindi la nostra gente ha aperto le case allargando la propria famiglia. E questo è un messaggio meraviglioso.

Molti hanno sottolineato però, ragione, il diverso approccio di fronte all’accoglienza della popolazione ucraina rispetto ad altre etnie ugualmente in fuga dai conflitti, oltre che dalla povertà. Lo ritiene un problema reale?

Il contrasto c’è. Abbiamo quelli che arrivano con i barconi, nei confronti dei quali si respira timore oppure addirittura si sente dire “questi qui ci portano via il lavoro”, che è la cosa più assurda di questo mondo che se non avessimo queste persone a lavorare e a prestarsi anche ad attività umili gli italiani non saprebbero cosa fare. Per cui, se da una parte c’è un’accoglienza piena, generosa e gratuita, dall’altra parte non è sempre così. Ma l’idea di accogliere tutti, come avrebbe fatto don Roberto, è un compito che ci spetta come cristiani.

La carità e l’aiuto al prossimo possono essere subordinati a questioni di documenti in regola e permessi di soggiorno?

È chiaro che l’autorità civile ha bisogno di avere delle sicurezze e riconosco che le persone devono entrare in uno schema legale, ma questo non è un nostro compito. Noi dobbiamo assicurare che mangino, che dormano, che respirino. Poi dobbiamo tenere anche una cordiale collaborazione con la parte statale, chiaramente.

C’è chi contesta questa posizione, ricordando che l’Italia in fondo accoglie tutti.

Sicuramente bisogna coinvolgere tutta l’Europa in questo progetto di accoglienza, ma qui sembra che in Italia noi siamo i più generosi, ma non è così. Altri Paesi, come la Germania, fanno di più. Ed è importante non dimenticarlo.

Torniamo a parlare di volontariato, lei come lo giudica?

È una realtà molto positiva. Che non può essere lasciata però all’immediatezza del bisogno da risolvere. Chi si impegna deve trovare le motivazioni profonde e queste nascono dalla Fede. Il nostro impegno, anche come Caritas, non è solo quello di proporre volontariato, ma di aiutare le persone che fanno volontariato a trovare le radici delle loro motivazioni e a scoprire che se ci sono delle radici allora c’è anche continuità e sviluppo. Altrimenti uno alle prime difficoltà dice: “Ma chi me lo fa fare? Pianto tutto e buona notte”.

Ma lei le vede queste radici nel nostro territorio?

Crearle è nostro compito. Abbiamo delegato un prete, don Alberto Fasola, con questo incarico: dire non come si fa il volontariato tecnicamente, ma quali sono le motivazioni religiose che assicurino una continuità e uno sviluppo all’aiuto concreto. Natale ci richiama alla testimonianza di Dio che si è fatto come noi perché diventiamo figli del Padre, ma essere suoi figli vuole dire che tra noi siamo fratelli. Ma tra fratelli non c’è il più o meno importante, non c’è la parola escluso o il giudizio. Ma dobbiamo darci la mano gli uni agli altri umilmente per quello che possiamo per rendere questo mondo più umano.

A proposito di Natale, si è fatto un gran dibattere sulle illuminazioni natalizie e sugli eventi per cittadini e turisti. Non crede che tutto questo possa distogliere l’attenzione sul reale spirito di questo giorno?

Io sono un ottimista per natura, quindi credo che questo bisogno di luci sia in realtà il grande desiderio che l’uomo ha di cercare la verità e di trovare dei capisaldi di riferimento. Non è solo appagare l’occhio, se è così ci si limita a una visione superficiale della vita. Ma se si vuole cercare il senso di queste luci, è il bisogno innato nel cuore dell’uomo di trovare serenità, affetto, pace, gioia e quella luce che per noi è un fatto storico: la presenza di Gesù, che è la luce del mondo. Se dovessi avere un giudizio meno ottimista, allora dovrei pensare che qui il Natale è stato completamente distorto: tutti festeggiano ma non si sa per chi.

Infine, un augurio per il 2023 per i comaschi, la Diocesi e i volontari.

Accogliere il Signore, che è il rivelatore del Padre. E Dio è amore e noi siamo fatti a sua immagine. Allora se Dio è amore, noi dobbiamo sviluppare questa dimensione essenziale della vita senza la quale siamo dei poveretti. Perché chi non è capace di amare è un uomo fallito.

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